venerdì 23 giugno 2017

Piazza della Loggia: un commento alla sentenza

Brescia, 28 maggio 1974, ore 10,12. Una bomba infilata in un cestino dei rifiuti provoca una strage durante una manifestazione antifascista in Piazza della Loggia. Muoiono otto persone.

Sono passati 43 anni. E quello che si diceva già nell’immediatezza del fatto (“strage fascista”) ora è una verità giudiziaria definitiva. A tarda sera del 20 giugno, la Corte di Cassazione ha confermato l’ergastolo a carico di Carlo Maria Maggi, indiscusso leader dell'organizzazione neofascista Ordine Nuovo, e di Maurizio Tramonte, ex “fonte Tritone” dei servizi segreti.

Una verità giudiziaria che arrivi a così tanti anni di distanza dal fatto può sembrare depotenziata. Ma, in questo caso, si tratta di un verdetto importantissimo. E’ infatti vero che nelle stragi di quegli anni le responsabilità dell’estremismo “nero” (a cominciare proprio da Ordine Nuovo) sono state accertate da tempo. Già in passato alcune sentenze, frettolosamente vendute come assoluzioni, in realtà riconoscevano queste responsabilità, seppure senza arrivare a condanne personali.
L’ultima sentenza sulla strage di Brescia va però oltre. Maggi rappresenta il vertice decisionale di Ordine Nuovo, mentre la condanna di Tramonte (“fonte” del Sid, soggetto totalmente interno alla destra eversiva, nonché presente sul luogo della strage) esplicita le ambigue connessioni fra i servizi segreti e l’eversione neofascista, certificando i depistaggi che hanno inquinato anni di indagini.
A questo si può aggiungere che già i precedenti gradi di giudizio avevano formulato pesanti considerazioni verso altri soggetti appartenenti a Ordine Nuovo, ormai defunti e quindi non condannabili: innanzitutto l’esperto di armi ed esplosivi, Carlo Digilio, e l’altro ordinovista veneto, Marcello Soffiati. Ma condannare Maggi (come detto: vertice decisionale di ON nel Nordest) scrive una parola definitiva sulla strage, ideata e realizzata da forze eversive neofasciste e “coperta” dai servizi segreti dell’epoca.

Quella di ieri è, quindi, una sentenza fondamentale, in un Paese che soffre di una memoria vaga e distorta, dove le stragi “nere”, da Piazza Fontana in poi, le si preferisce confinare nel comodo cassetto dei “misteri d’Italia”, dove le responsabilità della destra eversiva sembravano confinate alla sola dimensione storica o giornalistica, dove Pino Rauti (che di ON fu il “padre”, perlomeno nella prima fase della formazione stessa) viene ricordato come “intellettuale di grande spessore”, dove Giorgio Almirante è indicato come possibile riferimento culturale per un Movimento che si vorrebbe “né di destra né di sinistra”… Ma è importante, innanzitutto, perché rende giustizia alle vittime di Piazza della Loggia, che è giusto qui ricordare: Giulietta Banzi Bazoli, Livia Bottardi Milani, Clementina Calzari Trebeschi, Euplo Natali, Luigi Pinto, Bartolomeo Talenti, Alberto Trebeschi e Vittorio Zambarda.

Francesco “baro” Barilli

giovedì 8 giugno 2017

La buccia di banana dei diritti

Guarda, ne sono convinto: la dittatura del presente in cui viviamo farà sì che tutta la discussione sulla “libertà a Riina” si sgonfierà in un paio di giorni. Probabilmente io sono già fuori tempo massimo. Ma avevo voglia di dire qualcosa, e tu sai bene che non ritengo un pregio scrivere nell’immediatezza di un fatto. Tutt’altro.

Ti vedo perplesso. Forse temi che io cada nello stesso errore di molti: parlare di questa cosa in base all’eco mediatica (e distorta) di una notizia, senza informarmi su cosa ci sia davvero “dentro” la notizia stessa. Tranquillo, sono informato.
L’avvocato del “capo dei capi” aveva presentato un’istanza al tribunale di sorveglianza, chiedendo la sospensione della pena o i domiciliari, per motivi di salute del suo assistito. I giudici hanno rigettato l’istanza, per la pericolosità del soggetto. La Cassazione ha annullato la decisione, chiedendo ai magistrati di motivarla meglio. La Suprema Corte sostiene che la sola pericolosità non è sufficiente a negare la “morte dignitosa” (di cui tanto si è parlato in questi giorni). Se si riterrà di confermare il diniego alla richiesta del boss mafioso, lo si dovrà fare con altre motivazioni.

Tutte queste cose le so. Ma, ti confesso, voglio parlare d’altro. Perché, per una volta, a me sembra più interessante, come accennavo prima, l’eco mediatica che non la notizia stessa. Perché a me della vita di Riina importa poco o nulla, lo confesso. Ma vedere che in molti, anche a sinistra e pure fra persone degnissime e che stimo, si sono strappati i capelli alla sola idea che Riina possa morire in un luogo diverso dal carcere mi ha dato da pensare. Che poi in realtà lui sia già ora in ospedale, sebbene sempre sottoposto a regime carcerario, poco sembra interessare; sicuramente nulla importa a me visto che, ti dicevo, voglio soffermarmi su altro. Sono stato, insomma, colpito da certe spie linguistiche, che mi hanno lasciato inquieto.

Ho letto “Riina merita di morire”. Ti confesso, a costo d’essere impopolare: questa mi sembra l’osservazione più sciocca. TUTTI meritiamo di morire. L’unica cosa certa della nostra esistenza è la sua fine. La morte naturale, concedimelo, non è questa grande punizione…
Ho letto “lo stato di diritto non esiste per quelli come lui”. Una bizzarra considerazione dello stato di diritto. E che io, anarchico, debba difenderne o spiegarne i principi fondamentali è cosa troppo bizzarra per farla.

Di certo, noto che si sta perdendo, anche a sinistra, il principio di "diritti universali dell'individuo". Un principio che prescinde dalle responsabilità penali e anche dal giudizio morale che, legittimamente, ognuno può formarsi su una data persona. Se si dice "Riina non merita di morire con dignità, per quello che ha fatto" (con, a corollario, il rinnovato racconto del bimbo fatto sciogliere nell’acido) mi viene da chiedere "e allora uno stupratore seriale, invece, lo merita? Fin dove arriva l’asticella etica che certe persone hanno oltrepassato, tanto da non vedersi riconoscere diritti ad altri concessi? Il fatto che un essere umano sia stato ignobile in vita lo rende meno soggetto di diritti?”.

Non fraintendermi: non provo alcuna simpatia per Riina (né per lo stupratore seriale, per intenderci). E non sono vincolato da alcun credo religioso, né da convinzioni morali, all’obbligo di provare pietà universalmente. Pongo solo il tema dei "diritti inalienabili". E guarda che "inalienabili" ha un significato preciso. Di fronte ai diritti inalienabili non esiste il "ma".
Oppure, si abbia il coraggio morale di dire che non esistono diritti inalienabili, accollandosi ogni conseguenza. Che la tortura è sbagliata, ma in certi casi… Che le libertà individuali sono sacrosante, ma per motivi di sicurezza… Che la pena di morte è sbagliata, ma “quello lì” se l’è meritata…

I diritti non hanno molte vite come i gatti. Ne hanno una sola. Molto fragile. Ci vogliono anni a conquistarli e un attimo per perderli. O, perlomeno, per perdere di vista quanto siano importanti nel loro essere universali. Sono cose che mi hai sentito dire altre volte: abbi pazienza, con l’età ci si ripete, e sopportarlo è uno dei piccoli sacrifici che chiediamo noi vecchietti… Se te lo dico oggi è, in fondo, perché non pensavo di doverlo ripetere. Perché pensavo fossimo migliori. Invece scivoliamo sulla buccia di banana dei diritti, senza capire quanto ci possiamo fare male…

Francesco “baro” Barilli