venerdì 20 ottobre 2017

“Loving Vincent”: Van Gogh avrebbe meritato di più della somma di due cliché

Come promesso ieri su Facebook, ecco il mio giudizio su Loving Vincent. Non ho molto tempo, quindi scrivo solo una serie di appunti: scusate dunque sintesi e brutalizzazione dei concetti.

- Devo spoilerare alcune scelte narrative (chi vuole evitare anticipazioni si fermi ora…). Nel film si immagina che Armand, figlio di Joseph Roulin (il postino amico di Vincent durante il suo soggiorno ad Arles) sia incaricato dal padre di recapitare un’ultima lettera di Vincent al fratello Theo. Quando Armand riceve l’incarico è passato un anno dalla morte del pittore, e pochi mesi da quella di Theo (quest’ultima circostanza è però sconosciuta ai Roulin). Armand, quindi, solo nel suo viaggio scopre la morte di Theo e di non poter compiere la “missione originaria”; a questo punto la “trasforma” in un’appassionata ricerca sugli ultimi giorni dell’artista.

- L’espediente narrativo ci sta, ci mancherebbe. Il punto è che la ricerca di Armand diventa presto una vera e propria indagine, in cui il figlio del postino interroga (col piglio, appunto, dell’investigatore) vari personaggi, fra cui Marguerite, figlia del dottor Gachet (il medico che assistette Vincent nelle poche settimane che questi passò ad Auvers prima della morte) e Adeline Ravoux (figlia degli albergatori da cui Vincent pernottava, sempre ad Auvers).

- Il film suggerisce l’esistenza di una relazione fra Marguerite e VG, e accredita Adeline come testimone delle sue ultime ore.

- Adeline aveva 13 anni quando VG morì. Nel film, per esigenze narrative, viene rappresentata un po’ più grande. E’ vero che Adeline, in età anziana, lasciò una lucida testimonianza sulla fine di Vincent, ma precisa che (per la sua giovane età) in realtà lo vide tornare alla locanda gravemente ferito, e gli altri particolari le furono riferiti dal padre. Nella sua testimonianza, Adeline è effettivamente tagliente verso il dottor Gachet, ma non menziona mai Marguerite, né formula accuse ai Gachet (padre e figlia), come invece accade nel film.

- Che Vincent avesse avuto una storia d’amore con la giovane figlia di Gachet è sostenuto anche da uno dei numerosi film sul protagonista (“Van Gogh” di Maurice Pialat; 1991, disponibile solo in francese). In realtà la relazione Vincent/Marguerite non è certa. Chiaramente, un film può prendersi tutte le libertà narrative che sono ritenute opportune dagli autori. Non è questo il nocciolo della questione.

- Ad un certo punto, il film presenta un passaggio interessante, in cui Marguerite risponde ad Armand una cosa tipo “perché vi intestardite tanto sulla morte di VG? Non sarebbe più interessante cercare di capire la sua vita?”. Una bella frase, ma paradossalmente è il film stesso a disinteressarsi del consiglio…

- “Come è morto Vincent Van Gogh?”, o addirittura “Chi ha ucciso Vincent Van Gogh?” sarebbero stati titoli più onesti, invece di “Loving Vincent”. Avrebbero meglio rappresentato lo spirito della pellicola, che vira in fretta verso il giallo/noir (il “mistero” sulla morte di VG). Sia chiaro: fare “un giallo sulla morte di VG” è operazione legittima, ma in questo caso il lungometraggio era stato presentato come un commosso omaggio al grande pittore: ne esce, invece, qualcosa di diverso. La ricerca artistica di Van Gogh, la sua ossessiva passione per la pittura (che occupa spesso gran parte delle sue lettere, a Theo e ad altri), le sue intuizioni cromatiche e materiche NON appaiono, se non di sfuggita. Così pure, se anche il film avesse voluto indagare “l’uomo” più che “l’artista”, restano praticamente esclusi personaggi fondamentali, a favore di Adeline e Marguerite che, francamente, nella vita del pittore sono state assai meno importanti di altri: il fratello Theo, la cognata Johanna, il primo “vero amore” Sien, i genitori… Tutti personaggi che compaiono poco o per nulla.

- Il risultato della “indagine di Armand” è, in sostanza, che VG sia stato probabilmente vittima di un colpo di pistola sparato da un ragazzino che aveva “preso di mira” l’artista.

- Ricordo che Vincent, proprio sul letto di morte, sostenne di essersi sparato per uccidersi. E lo disse sia al padre di Adeline sia (soprattutto) all’amatissimo fratello Theo. Sinceramente non è comprensibile per quale ragione avrebbe dovuto mentire. Peraltro, sottolineo che se anche la vittima avesse voluto difendere, probabilmente per pietà, il proprio assassino (ipotesi che formulo per pura accademia) resterebbe la certezza che abbia comunque “accettato” la morte come una propria scelta o addirittura una liberazione: anche in questo caso, una sorta di suicidio.

- Per chi fosse interessato alla mia teoria (sottolineo: MIA personalissima teoria): sulla “malattia” di cui soffrì Van Gogh esistono molte ipotesi. Al di là del profilo squisitamente clinico, su cui non mi addentro, è pacifico che si trattasse di un complesso disagio psicologico ed esistenziale, che lo aveva già portato ad atti di autolesionismo di cui il più famoso è la parziale automutilazione dell’orecchio, dopo la celebre lite con Gauguin ad Arles. E’ mia opinione che pure ad Auvers Van Gogh abbia concretizzato un estremo atto di autolesionismo (infatti si spara all’addome), sfociato poi nella morte.

- Preciso nuovamente (meglio abbondare…): trasformare la fine di VG in un giallo/noir è operazione legittima. E il punto non è “questo non è quanto mi aspettavo”. Il punto, semmai, è “questo non era (non sembrava…) l’obbiettivo del film”. Un film in cui non emerge l’artista (se non secondo lo stereotipo “genio incompreso”) e non emerge l’uomo (se non come “individuo tormentato da demoni interiori”). VG avrebbe meritato di più della somma di due cliché.

- La tecnica usata per questo film resta originale e apprezzabile. Il film è frutto di anni di lavoro: vengono riprodotti non solo i quadri del protagonista, ma ogni inquadratura viene “trasformata” in un dipinto, ovviamente in “stile Van Gogh” (immagino esista il making of: dovrebbe essere molto interessante). Il risultato è tecnicamente intrigante. C’è qualche eccesso didascalico, ma non è questo ad inficiare il prodotto finale.

- Prima che qualcuno ipotizzi “strani motivi” che sottenderebbero la mia critica, urge una precisazione finale. Sì, ho visto Loving Vincent perchè è in lavorazione il mio fumetto su VG (Sakka ai disegni: non è un segreto, ne abbiamo già parlato in alcune interviste). Sono quindi andato a vedere il film per arricchire la mia conoscenza sull’argomento, per verificare eventuali errori in fase di sceneggiatura, ma SENZA pregiudizi: il film resta un prodotto diversissmo da quel che sarà il fumetto, l’uno non toglie nulla all’altro.

Francesco “baro” Barilli

lunedì 18 settembre 2017

“Fedele alla linea”, di Gianluca Costantini

Dal 2005 a oggi. 12 anni: al tempo stesso, un lampo e un’eternità.
Guarda, questa è la prima riflessione che mi è sorta leggendo (in molti casi rileggendo) i lavori di Gianluca Costantini, pubblicati appunto dal 2005 a oggi e ora raccolti in “Fedele alla linea” (Beccogiallo): 12 anni sono poca cosa, e contemporaneamente un’eternità in cui abbiamo visto cambiare il mondo. Non in meglio.

Gianluca è molte cose. Disegnatore-attivista. Insegnate appassionato. Amico (ma questa è la cosa meno importante, ora). Artista senza la paura di schierarsi (anzi…).

Ha un’altra peculiarità che lo rende unico (o fra i pochi, nel genere “fumetto di realtà”): la velocità di esecuzione. Una velocità solo in minima parte dovuta al segno grafico, vario ed efficace nel suo essere asciutto ed essenziale.
Seguimi, cerco di spiegarmi meglio. Le prerogative del linguaggio-fumetto di solito non consentono immediatezza nell’informazione. Certo, permettono all’autore un maggior margine per fermare le idee e dare agli spunti migliore organicità, ma “stare sulla notizia” pare impossibile. E’ una questione di tempi tecnici, più laboriosi del giornalismo “classico”, scritto o fotografato che sia.
Ricordo quanto scrisse Paolo Interdonato nel suo blog, “Spari di inchiostro”: “Per quel che riguarda i tempi, è assolutamente evidente che chi fa giornalismo a fumetti non può essere sulla notizia e non può permettersi di innestarsi in una puntuale e irrefrenabile macchina informativa, pronta a non “bucare” nessun evento di rilievo. Per il semplice fatto che il tempo necessario per sceneggiare e disegnare un reportage a fumetti è superiore a quello richiesto dalla sola scrittura”. Vero, e io stesso posso testimoniarlo. Ma per Gianluca, invece, fare un fumetto in tempi brevi restando sull’attualità sembra una norma. Ed è un talento, ti accennavo, che ha poco a che fare con l’essenzialità del suo tratto, ma invece risiede – a mio avviso – nella sua intuitività, nella capacità di non essere solo “reporter sul campo”, ma di sentirsi partecipe delle storie che racconta. E, almeno credo, sta nella responsabilità che sente sulle spalle: essere parte attiva di storie che non si limitano a raccontare il male del mondo, ma spingono alla solidarietà, all’empatia, al dovere morale di ribellarsi alle ingiustizie.

Accanto a molte altre storie (“minimali” e magari poco conosciute), in questo libro troverai molte silhouette.
Erdogan grondante sangue.
Vik, che ricorda di restare umani.
L’angosciante sagoma di Trump (o del suo parrucchino…).
Il profilo pulito di Giulio Regeni, che ti interroga e ti invita a non dimenticarlo.
E poi una carta geografica dove cerchiare paesi noti e meno noti, tutti toccati dalla matita di Costantini…

Forse vorresti che ti dicessi quale racconto mi ha maggiormente colpito. Ci sarebbe, ma non lo farò. Perché forse ciò che mi ha colpito maggiormente è quella carta geografica.
Vedi, ti ho detto che Gianluca è molte cose. Ho dimenticato la più importante, che emerge proprio dalla lettura di questa raccolta. E’ un uomo capace di vedere il male del mondo e di conservare, ciò nonostante, amore per l’umanità. In fondo è proprio per questo che “Fedele alla linea” mi emoziona.

Francesco “baro” Barilli


martedì 22 agosto 2017

Non ti salveranno…

Senti, caro mio,
ho fatto passare qualche giorno dall’orrore di Barcellona. Per essere più tranquillo io mentre scrivo, e sperare che pure tu lo sia. E che tu possa dunque leggere e comprendere.
Poco conta se sei un po’ fascista o razzista, consapevole o meno. Magari non lo sei e hai solo paura, perché pensi “prima o poi toccherà a noi”.
Confesso, condivido la tua angoscia. Ma cerca di mantenerti lucido: io, da parte mia, farò di tutto per esserlo.
Quel che voglio dirti è che è naturale avere paura e pure domandarsi “che fare?”. Io ho poche certezze e te le regalo.

Non ti salverà Salvini. A lui interessa capitalizzare il momento, in termini elettorali. Io credo sia un uomo scaltro e abile: ha letteralmente rilevato una ditta in fallimento e l’ha riportata sulla cresta dell’onda. Se, con fatica, tralascio gli aspetti etici, devo persino riconoscere che in quell’ottica sta facendo un buon lavoro. Ma ciò che mi preme dirti è: questo suo lavoro non avrà alcuna influenza sulla tua o sulla mia sicurezza.
Non ti salverà insultare Laura Boldrini, anche se ormai le potresti addebitare anche la dermatite del tuo cane. Non ti servirà continuare a insultarla, dicevo, ma se odiarla ti fa stare meglio prosegui pure.
Non ti salveranno le parole di Cangini, che sul Quotidiano Nazionale consiglia il “modello Israele”. Non credere: non dimentica che pure Israele convive da molti anni proprio con paure analoghe. Non gli sfugge neppure che quel “modello” che invoca alimenta da generazioni proprio l’odio che dovrebbe combattere. Anche lui, per altri scopi, è interessato a capitalizzare il momento.

(non dovrebbe neppure essere necessario, ma lo specifico: in questa nostra discussione ti ricordo cose che non fermeranno l’odio, non sono adatte a farlo, e spesso sono menzogne consapevoli della propria inutilità a fermarlo. Questo NON toglie un grammo di riprovazione verso quell’odio. E – sono convinto, almeno su questo concorderai – non mi piace nemmeno chi, di fronte alle stragi, ricorda oggi le bombe americane, come se queste potessero giustificare tagliagole e assassini. No, come ha scritto Alessio in altra occasione, non m’interrogherò sulla scelta fra il colera e il tifo: l’uno non servirà a farmi apparire meno orrendo il secondo.)

Non ti salveranno neppure Sallusti, Sgarbi e compagnia cantante.
In sostanza, non ci aiuterà essere meschini. Guarda, qua non si tratta d’essere “buonisti”, termine orribile che ammazza il buon senso ogni volta che lo si pronuncia. Giungo a dire che, fosse davvero utile, potrei persino prendere in considerazione l’eventualità di diventarlo (meschino, dico). Ma non ci salverà, tutto qui.
Se mi conosci anche solo un po’ saprai che non sono mai stato tenero con forze dell’ordine e servizi. Però stavolta lo dico: sì, forse questi potranno fare qualcosa.

Dunque nulla, o quasi, potranno salvarti o salvarci.
A noi resta il vivere, sapendo che può capitare di morire e di farlo per una causa orrenda, imprevista, atroce. La nostra vera scelta è come proseguire a vivere. Io scelgo (e ti dico e ti consiglio, per quel che vale, di fare altrettanto) di vivere come sempre, sperando che di me si possa almeno dire “non è vissuto da stronzo ed è morto con dignità”.

Forse davvero, in questo modo, potremmo essere fedeli ai “nostri valori”. Che non so bene cosa significhino per te, ma per me significa: non vivere odiando inutilmente, non lasciarsi dominare dalla paura. Non affidarsi alle (o “non fidarsi delle”…) strutture del potere, perché queste pensano solo alla propria autoperpetuazione e a nient’altro.

Francesco “baro” Barilli

giovedì 10 agosto 2017

Il Mare Nero di Alessio Lega

Alessio Lega è un amico.
“Cantautore anarchico”, dicono. Ed è pure vero, eh, però mica so se gli fa piacere essere definito sempre così. Che poi non vorrei diventasse una moda ed emergessero un “poeta socialdemocratico”, uno “scrittore forzista”, il “saldatore leghista”… o, peggio, “l’intellettuale alfaniano” (orrore nell’ossimoro!!!).
Però, anarchico lo è. E questa è pure una cosa che abbiamo in comune. Come il fatto che io e lui ci si incrocia sempre al 20 luglio (dai, sapete bene dove e perché!!!). E altro ancora, ma adesso basta divagare…

Mare Nero è il suo nuovo disco (e io mi sa proprio che li ho tutti!!!). Ed è un disco bello, vario e compatto al tempo stesso.
Vario perché le canzoni sono “ripescate” da vari momenti della sua vita; compatto perché in ogni brano c’è sempre (come negli altri suoi lavori, dico) l’amore per gli ultimi, “gli sfigati”, “i dimenticati” e le pagine di storia ingiustamente dimenticate…

Così, si va da “Ambaradan” (che se uno l’ascolta e poi va avanti a pensare “italiani brava gente” è fesso o peggio) al recupero di “Zolletta” (per Enzo G. Baldoni: che se non mi sbaglio finora era presente solo su un suo vecchio live) fino alle lotte popolari di ieri (“Santa Croce”) e di oggi (“Maddalena di Valsusa”).

Ci sono anche tanti luoghi, in questo cd: l’Abissinia, Lecce, la Valsusa... E tanta Milano: quella di Mario, quella dei viali malinconici del ricordo di Zolletta, quella straniata e straniante delle sue stazioni.

Sarà pure un disco di “ripescaggi”, ma Mare Nero è un disco dannatamente riuscito. Dico di più: un lavoro estremamente maturo, non solo nei testi (che Alessio scriva bene non è una novità), ma pure nella raffinata ricerca musicale. Basti ascoltare le citazioni dal tema di Pinocchio in “Hanno ammazzato il Mario in bicicletta”, o l’arrangiamento tzigano di “Porrajmos”, dove sembra quasi che Alessio voglia non solo “accompagnare” il proprio testo, ma “raccontare anche con la musica”.

Poi ci sta pure la title track, vero inno all’anarchia. Ma di quella non parlo, che sennò rafforzo l’etichetta di cui parlavo all’inizio (“Cantautore anarchico”). E poi perché sennò ci si commuove, e non c’è manco un fazzoletto rosso-nero in giro, quando serve…

Francesco “baro” Barilli

giovedì 6 luglio 2017

“Primo Levi”, di Matteo Mastragostino e Alessandro Ranghiasci

Non una recensione (mi mancano competenza, tempo, voglia), ma un consiglio di lettura sì: leggete “Primo Levi”, di Matteo Mastragostino (testi) e Alessandro Ranghiasci (disegni), da poco uscito per BeccoGiallo.
Non starò a dire perché è importante ricordare Primo Levi. Come scrittore, come testimone di Auschwitz, come uomo. Posso solo dire che probabilmente non avrei scritto nulla se non avessi letto in giovane età “Se questo è un uomo” e “La tregua”. Ricordo ancora, in particolare, alcune pagine de La Tregua, dove lo scrittore piemontese descriveva il dramma del piccolo Hurbinek, un bimbo probabilmente nato nel lager e morto poco dopo la liberazione del campo. “Libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole”: mi si incisero nell’anima.
Capirete, dunque, che già l’approccio narrativo di Matteo (“questo fumetto non è la storia di Primo Levi, una sua biografia, ma è la storia del ‘mio’ Primo Levi”) mi è caro. Matteo, racconta nelle note, ricorda bene la morte dello scrittore piemontese, l’11 aprile 1987, quando lui aveva 10 anni. E dunque, come incipit del proprio fumetto, immagina che il protagonista, poco prima di morire, abbia incontrato i bambini di una scuola elementare, raccontando la propria storia come avrebbe potuto farlo proprio al “giovane Matteo”. E forse, al di là dell’espediente narrativo, la soluzione è efficace anche per fare capire quanto sarebbe importante – oggi che i testimoni diretti dell’Olocausto sono pressochè scomparsi – mantenere viva nelle giovani generazioni la memoria di quell’orrore.
I due autori sono esordienti nel mondo del fumetto, ma il loro è un lavoro più che egregio, al di là del “valore sociale” del libro. I testi sono precisi e incalzanti, i disegni graffiano il cuore: un volume che consiglio a tutti.

Francesco “baro” Barilli

venerdì 23 giugno 2017

Piazza della Loggia: un commento alla sentenza

Brescia, 28 maggio 1974, ore 10,12. Una bomba infilata in un cestino dei rifiuti provoca una strage durante una manifestazione antifascista in Piazza della Loggia. Muoiono otto persone.

Sono passati 43 anni. E quello che si diceva già nell’immediatezza del fatto (“strage fascista”) ora è una verità giudiziaria definitiva. A tarda sera del 20 giugno, la Corte di Cassazione ha confermato l’ergastolo a carico di Carlo Maria Maggi, indiscusso leader dell'organizzazione neofascista Ordine Nuovo, e di Maurizio Tramonte, ex “fonte Tritone” dei servizi segreti.

Una verità giudiziaria che arrivi a così tanti anni di distanza dal fatto può sembrare depotenziata. Ma, in questo caso, si tratta di un verdetto importantissimo. E’ infatti vero che nelle stragi di quegli anni le responsabilità dell’estremismo “nero” (a cominciare proprio da Ordine Nuovo) sono state accertate da tempo. Già in passato alcune sentenze, frettolosamente vendute come assoluzioni, in realtà riconoscevano queste responsabilità, seppure senza arrivare a condanne personali.
L’ultima sentenza sulla strage di Brescia va però oltre. Maggi rappresenta il vertice decisionale di Ordine Nuovo, mentre la condanna di Tramonte (“fonte” del Sid, soggetto totalmente interno alla destra eversiva, nonché presente sul luogo della strage) esplicita le ambigue connessioni fra i servizi segreti e l’eversione neofascista, certificando i depistaggi che hanno inquinato anni di indagini.
A questo si può aggiungere che già i precedenti gradi di giudizio avevano formulato pesanti considerazioni verso altri soggetti appartenenti a Ordine Nuovo, ormai defunti e quindi non condannabili: innanzitutto l’esperto di armi ed esplosivi, Carlo Digilio, e l’altro ordinovista veneto, Marcello Soffiati. Ma condannare Maggi (come detto: vertice decisionale di ON nel Nordest) scrive una parola definitiva sulla strage, ideata e realizzata da forze eversive neofasciste e “coperta” dai servizi segreti dell’epoca.

Quella di ieri è, quindi, una sentenza fondamentale, in un Paese che soffre di una memoria vaga e distorta, dove le stragi “nere”, da Piazza Fontana in poi, le si preferisce confinare nel comodo cassetto dei “misteri d’Italia”, dove le responsabilità della destra eversiva sembravano confinate alla sola dimensione storica o giornalistica, dove Pino Rauti (che di ON fu il “padre”, perlomeno nella prima fase della formazione stessa) viene ricordato come “intellettuale di grande spessore”, dove Giorgio Almirante è indicato come possibile riferimento culturale per un Movimento che si vorrebbe “né di destra né di sinistra”… Ma è importante, innanzitutto, perché rende giustizia alle vittime di Piazza della Loggia, che è giusto qui ricordare: Giulietta Banzi Bazoli, Livia Bottardi Milani, Clementina Calzari Trebeschi, Euplo Natali, Luigi Pinto, Bartolomeo Talenti, Alberto Trebeschi e Vittorio Zambarda.

Francesco “baro” Barilli

giovedì 8 giugno 2017

La buccia di banana dei diritti

Guarda, ne sono convinto: la dittatura del presente in cui viviamo farà sì che tutta la discussione sulla “libertà a Riina” si sgonfierà in un paio di giorni. Probabilmente io sono già fuori tempo massimo. Ma avevo voglia di dire qualcosa, e tu sai bene che non ritengo un pregio scrivere nell’immediatezza di un fatto. Tutt’altro.

Ti vedo perplesso. Forse temi che io cada nello stesso errore di molti: parlare di questa cosa in base all’eco mediatica (e distorta) di una notizia, senza informarmi su cosa ci sia davvero “dentro” la notizia stessa. Tranquillo, sono informato.
L’avvocato del “capo dei capi” aveva presentato un’istanza al tribunale di sorveglianza, chiedendo la sospensione della pena o i domiciliari, per motivi di salute del suo assistito. I giudici hanno rigettato l’istanza, per la pericolosità del soggetto. La Cassazione ha annullato la decisione, chiedendo ai magistrati di motivarla meglio. La Suprema Corte sostiene che la sola pericolosità non è sufficiente a negare la “morte dignitosa” (di cui tanto si è parlato in questi giorni). Se si riterrà di confermare il diniego alla richiesta del boss mafioso, lo si dovrà fare con altre motivazioni.

Tutte queste cose le so. Ma, ti confesso, voglio parlare d’altro. Perché, per una volta, a me sembra più interessante, come accennavo prima, l’eco mediatica che non la notizia stessa. Perché a me della vita di Riina importa poco o nulla, lo confesso. Ma vedere che in molti, anche a sinistra e pure fra persone degnissime e che stimo, si sono strappati i capelli alla sola idea che Riina possa morire in un luogo diverso dal carcere mi ha dato da pensare. Che poi in realtà lui sia già ora in ospedale, sebbene sempre sottoposto a regime carcerario, poco sembra interessare; sicuramente nulla importa a me visto che, ti dicevo, voglio soffermarmi su altro. Sono stato, insomma, colpito da certe spie linguistiche, che mi hanno lasciato inquieto.

Ho letto “Riina merita di morire”. Ti confesso, a costo d’essere impopolare: questa mi sembra l’osservazione più sciocca. TUTTI meritiamo di morire. L’unica cosa certa della nostra esistenza è la sua fine. La morte naturale, concedimelo, non è questa grande punizione…
Ho letto “lo stato di diritto non esiste per quelli come lui”. Una bizzarra considerazione dello stato di diritto. E che io, anarchico, debba difenderne o spiegarne i principi fondamentali è cosa troppo bizzarra per farla.

Di certo, noto che si sta perdendo, anche a sinistra, il principio di "diritti universali dell'individuo". Un principio che prescinde dalle responsabilità penali e anche dal giudizio morale che, legittimamente, ognuno può formarsi su una data persona. Se si dice "Riina non merita di morire con dignità, per quello che ha fatto" (con, a corollario, il rinnovato racconto del bimbo fatto sciogliere nell’acido) mi viene da chiedere "e allora uno stupratore seriale, invece, lo merita? Fin dove arriva l’asticella etica che certe persone hanno oltrepassato, tanto da non vedersi riconoscere diritti ad altri concessi? Il fatto che un essere umano sia stato ignobile in vita lo rende meno soggetto di diritti?”.

Non fraintendermi: non provo alcuna simpatia per Riina (né per lo stupratore seriale, per intenderci). E non sono vincolato da alcun credo religioso, né da convinzioni morali, all’obbligo di provare pietà universalmente. Pongo solo il tema dei "diritti inalienabili". E guarda che "inalienabili" ha un significato preciso. Di fronte ai diritti inalienabili non esiste il "ma".
Oppure, si abbia il coraggio morale di dire che non esistono diritti inalienabili, accollandosi ogni conseguenza. Che la tortura è sbagliata, ma in certi casi… Che le libertà individuali sono sacrosante, ma per motivi di sicurezza… Che la pena di morte è sbagliata, ma “quello lì” se l’è meritata…

I diritti non hanno molte vite come i gatti. Ne hanno una sola. Molto fragile. Ci vogliono anni a conquistarli e un attimo per perderli. O, perlomeno, per perdere di vista quanto siano importanti nel loro essere universali. Sono cose che mi hai sentito dire altre volte: abbi pazienza, con l’età ci si ripete, e sopportarlo è uno dei piccoli sacrifici che chiediamo noi vecchietti… Se te lo dico oggi è, in fondo, perché non pensavo di doverlo ripetere. Perché pensavo fossimo migliori. Invece scivoliamo sulla buccia di banana dei diritti, senza capire quanto ci possiamo fare male…

Francesco “baro” Barilli

martedì 16 maggio 2017

“Campana”, di Simone Lucciola e Rocco Lombardi





Provo sempre un po’ di imbarazzo a parlare del fumetto di un amico. E’ però vero che scrivere recensioni non è una mia professione (né, a dire il vero, una mia passione) e che il mondo del fumetto è un microcosmo in cui si finisce col conoscere altri artisti, stringere amicizie, interessarsi proprio dei lavori di qualcuno con cui hai creato un rapporto che va al di là della conoscenza professionale…
Insomma, un lungo pippone per dire che, sì, ho letto “Campana” perché mi incuriosiva la figura del protagonista, ma pure per l’amicizia che mi lega a Simone Lucciola (autore assieme a Rocco Lombardi di questo fumetto, uscito per Giuda edizioni nel 2011). Ad attestare che l’affetto per Simone non influenza questa “recensione” (meno pomposamente: un commento e un consiglio di lettura) c’è solo la mia parola: non è molto, l’ammetto, ma non posso produrre nulla di più.

E’ probabile che, fra quanti stanno leggendo, molti non conoscano Dino Campana (1885 – 1932). Credo che per lui qualsiasi definizione finisca con l’essere un’etichetta vaga e incompleta, considerata la sua complessa “natura umana”. “Poeta maledetto” è null’altro che una di queste vaghe etichette: valida, tutto sommato e con tutti i limiti di ogni “etichetta”, per capire almeno a che tipo di narrazione ci stiamo avvicinando.

Simone e Rocco hanno realizzato un’opera originale, a cominciare dallo stile grafico (a 4 mani). Una scelta in cui si alternano, fondendosi però in un’unica piacevole lettura, il segno pulito del primo e quello più allucinato di Rocco.
Ma forse qui devo correggermi: parlo di “un’unica piacevole lettura”, ma il nostro caso è diverso. Coerentemente con l’arte, la poetica e la vita stessa del protagonista, il lavoro di Rocco e Simone è innanzitutto da “guardare” prima ancora che da leggere. Un fumetto “visivo” – più che “visionario” – che restituisce non tanto, o non solo, una biografia sofferta, ma pure l’intensità delle creazioni di Campana.

“Campana” non è, infatti, una biografia a fumetti (anche se nel volume risulta evidente l’attenta ricerca documentale degli autori), ma un viaggio attraverso l’esistenza del poeta, i suoi versi, i luoghi visitati… Anche le immagini oniriche delle sue liriche sono efficacemente evocate dalle tavole di Rocco e Simone.
Leggere questo fumetto è come percorrere un viaggio, solo in parte “fisico”, finendo attirati in un vortice psichedelico di immagini e testi. Che sono poi il viaggio e il vortice di un uomo che aveva trovato nella poesia non tanto la propria forma di espressione, ma l’unica ragione di vita.
E’ un percorso, quello tracciato da Simone e Rocco, volutamente non lineare, ma non per questo meno razionale: forse, anzi, l’unico metodo per rendere su carta l’esplosione delle liriche di Campana, i suoi conflitti interiori e, al tempo stesso, la sua breve esistenza. Un percorso in cui ci si perde, se si cerca un ordine, ma è l’unico percorso possibile, proprio perché si tratta di una storia che “rifiuta l’ordine” e che deve essere fruita come una sorta di mosaico in cui ogni tassello può acquisire un diverso senso a seconda di quello a cui viene accostato… E Campana stesso emerge come una sorta di archetipo dell’artista libero (libertario?) che rifiutava ogni convenzione, sociale quanto artistica, giocandosi probabilmente ogni possibilità di essere davvero riconosciuto dai suoi simili, nella sua epoca, e condannandosi alla marginalità (anche qui: tanto sociale quanto di “riconoscimento letterario”, all’epoca).

A concludere questa “recensione”: a chiudere il volume, un pregevole apparato redazionale di Simone restituisce al lettore una dimensione più filologica e biografica del protagonista.

Francesco “baro” Barilli

martedì 21 febbraio 2017

Ancora sul “suicidio di Lavagna”

Succede che nei giorni scorsi, sulla pagina Facebook di una mia amica, incrocio un’interessante discussione sulla tragedia del ragazzo morto suicida a Lavagna. Finisco così con l’intervenire, anche se su questo fatto avevo deciso di non farlo.
Ho pensato, poi, che quanto avevo scritto poteva interessare a qualcuno. Quindi, riporto ora di seguito quel mio intervento, leggermente editato e ampliato.

Una premessa: non sono cristiano, né – quindi – sono legato “per obbedienza” al precetto “non giudicate o sarete giudicati”. Però quel precetto l’ho sempre trovato nobile e “alto”: ho sempre pensato intendesse “non puntate il dito, non condannate!!”; a questo ho cercato di restare fedele: m’ha aiutato il fatto che pure l’intera discografia di De Andrè lo insegna. Ma il “giudicare” (nel senso “formarsi un giudizio personale su qualcosa o qualcuno, dopo una propria valutazione”) è cosa ben diversa e di cui non mi vergogno. Aggiungo: da scrittore ritengo mio diritto “giudicare”, nel senso esposto sopra, nella consapevolezza che quanto dico o scrivo a sua volta viene giudicato. A volte duramente.
Però, però… “Sì, però non si giudica (in nessun senso) il dolore di un genitore”. Vero; infatti sul fatto in sé (il suicidio) non vorrei esprimermi. Un po’ perché ci sono pochi elementi, un po’ perché sarebbe davvero crudele e stupido. E non temo tanto il primo aggettivo, quanto il secondo.
Ma la signora al funerale ha parlato dal pulpito (in più di un senso…) e lo ha fatto per 5 minuti, dedicando gli ultimi 20 secondi a un saluto al figlio (a cui ha chiesto scusa… ma non si è capito di cosa – poi ci torneremo) e per il resto ha fatto un vero e proprio “discorso pubblico”, quasi un manifesto di idee. Ha parlato “ai giovani” e “ai genitori”. L’ha fatto senza usare una sola parola di autocritica, sistemandosi la coscienza e autoassolvendosi. L’unico accenno autocritico sta nel vago finale “Perdonami per non essere stata capace di colmare quel vuoto che ti portavi dentro da lontano”. Per il resto, il suo discorso è sembrato un’autoassoluzione, formulata con la bara del figlio a due metri, e un predicozzo; ai giovani (che devono rifiutare lo sballo, e tornare alla “vita reale”, lontani dai social media) e ai genitori (che devono “fare rete”, che in realtà non significa niente, ma oggi è di moda).
Un discorso intollerante; idealista quanto integralista, forse inconsapevole; incosciente (nel senso: non cosciente di quanto è successo); in definitiva pericoloso, come lo è ogni fanatismo.
Da lì (dal discorso, intendo) è partita una deriva di commenti sulla droga, sui relativi rischi, su proibizionismo e legalizzazione. Non una parola sull’opportunità o meno di quello “stigma sociale” che ha colpito la vittima.
Perché, parliamoci chiaro, questa storia avrebbe dovuto parlare soprattutto di quello: della vergogna che deve provare un ragazzino, perquisito prima a scuola e poi nel luogo per lui più intimo e sicuro: la propria camera. Per un po’ di fumo.
Quel ragazzo NON si è ucciso per “quel vuoto che si portava dentro da lontano”. In fondo è presuntuoso persino dire d’aver compreso perché l’ha fatto; ma di certo lo “stigma sociale” che si è abbattuto su di lui (l’essere trattato da criminale) ha influito non poco.
Per lui non si può più fare nulla. Per i disastri futuri che può causare una mentalità che non comprende la differenza fra “colpa” e “disagio”, fra “reato” e “farsi del male”, fra “educazione” e “punizione” (e le mille sfumature intermedie fra le varie categorie: la vita non è semplice e rifiuta semplificazioni e “caselle”), si potrebbe fare molto. Per questo, a mio avviso, rispondere a quel discorso non è per niente inopportuno.

Ma devo dilungarmi ancora: umanamente NON volevo ascoltare il discorso della madre. Quando però scrivo su qualcosa sento il dovere di conoscere. Sono uno scrittore (credetemi, NON lo ripeto per vanto – cosa ci sarebbe da vantarsi poi…): non sopporto quei giornalisti che si informano alla bell’e meglio e poi scrivono e pontificano. Preferisco evitare le emozioni e capire i fatti prima di scrivere. Credo (magari sbaglio) che un giornalista o uno scrittore abbiano doveri diversi da quelli di altre persone, quando commentano. NON sto dicendo che il parere di uno scrittore conti di più, anzi… Semplicemente il suo diritto di dare un parere “pubblico” non può prescindere dal dovere di informarsi preventivamente su ciò che sta commentando.
Dunque, non è che mi abbia dato fastidio il fatto che la donna si sia autoassolta (meglio: istintivamente mi dà fastidio, l’ammetto, ma quello cerco di non farlo entrare nella mia tastiera). Quindi non giudico cosa doveva o poteva fare o dire. Il punto è che lei ha scelto di fare un predicozzo a giovani e ai genitori. Si è resa “personaggio pubblico”, in buona o mala fede non m’importa. Ha detto in sostanza “quel che è accaduto a me può interessare a molti” (fin qui: giusto) “e quindi vi dico cosa dovete fare” (legittimo, ma allora ti rispondo).
Aggiungo che “la madre”, in un paese con un retaggio culturale cattolico e bigotto come il nostro, è un ruolo pesante, che finisce col pagare colpe non sue (sue “di madre” in generale, intendo: non sto parlando solo del caso Lavagna, ora). Tornando al “caso Lavagna” e per quanto mi riguarda, posso solo dire che ha parlato la donna e io ho quindi commentato le sue parole: l’avrei fatto ugualmente se avesse parlato il padre, per intenderci.

Il discorso della donna è uno di quei casi in cui è lampante che le parole, se non contestualizzate, rischiano d’essere incomprensibili o di perdere significato. Se il ragazzo fosse morto di un’overdose, per dire, sarebbe stato naturale sentire quelle parole: invitare i giovani a stare lontani “dallo sballo” e i genitori colpiti da simili esperienze a “fare rete”; chiedere scusa da genitore “per non aver saputo colmare quel vuoto”. Ma la situazione che ha portato al suicidio di Lavagna è completamente diversa: “il fumo” è stato solo una scintilla, il resto l’ha fatto lo stigma sociale a cui il ragazzo è stato sottoposto, peraltro in tempi e modi improvvisi e violenti.

Ho visto e apprezzato la lettera di Lello Voce. Non credo volesse presentare la propria situazione come “paradigmatica”. Ha contrapposto un’esperienza (la propria, dolorosa) a un’altra esperienza (quella di Lavagna, tragica) che invece la diretta interessata ha presentato come paradigmatica. La madre di Lavagna è salita su una cattedra per spiegare “cosa è giusto fare”. L’ha fatto con le lacrime agli occhi, ma questo può rendere una risposta più difficile e straziante, ma non per questo meno necessaria.

Francesco “baro” Barilli