mercoledì 26 febbraio 2014

Strage di Brescia, la ricerca della verità è anche una lotta contro il tempo

La sentenza della Cassazione del 21 febbraio sulla strage di Piazza della Loggia del 28 maggio 1974 è un raggio di sole, per certi versi inaspettato. Lo sintetizza Beppe Montanti, uno dei curatori del gruppo facebook che ha seguito l’ultimo processo. Subito dopo la sentenza, che ha annullato le assoluzioni di Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte (a carico dei due imputati dovrà essere celebrato un nuovo processo d’appello) Beppe ha scritto sulla pagina facebook: “A Brescia, stamane c’è il sole; lo conferma la Corte di Cassazione”.
Il commento esprime la soddisfazione di tutti quelli che da ormai quarant’anni attendono giustizia per la strage, “indiscutibilmente quella a più alto tasso di politicità” come scrisse il 23 maggio 1993 il Giudice Istruttore Gianpaolo Zorzi (semplice omonimia con uno degli imputati del procedimento appena concluso in Cassazione).

In effetti la decisione è importante, pur con tutti i limiti che vedremo poi: valorizza le indagini dei PM Di Martino e Piantoni, svilite dai due precedenti gradi di giudizio, e sembra sottolineare (si devono attendere le motivazioni e soprattutto l’esito del nuovo processo) le responsabilità dei neofascisti di Ordine Nuovo nel Veneto, di cui Maggi era capo indiscusso, e pure di apparati dello stato (Tramonte era la “fonte Tritone” del Sid).

Ad onor del vero, già la sentenza di appello del 14 aprile 2012, a differenza di quella di primo grado, aveva affermato la responsabilità di Ordine Nuovo, o perlomeno di schegge residue di quel gruppo sciolto ufficialmente il 23 novembre 1973 dal ministro degli Interni Taviani: tale sentenza, infatti, conteneva pesanti considerazioni verso soggetti ormai defunti (e quindi non condannabili): innanzitutto l’esperto di armi ed esplosivi Carlo Digilio e l’altro ordinovista veneto Marcello Soffiati. Ma “era illogico che Digilio, l'artificiere della bomba, avesse fatto tutto a insaputa di Maggi, che decideva tutte le operazioni di Ordine nuovo nel Nordest. E il rinvio di Tramonte certifica il depistaggio del generale Maletti (ex capo del controspionaggio, ndr) e di chi tenne le carte nei cassetti", come correttamente dichiarato a Repubblica da Manlio Milani, da quarant’anni vera e propria “anima” dei familiari delle vittime.

Proprio riguardo i depistaggi il dibattimento bresciano, pur nel suo fin qui discutibile epilogo, aveva lasciato alcuni elementi su cui riflettere. Innanzitutto proprio la vicenda di quel Gianadelio Maletti, nel 1974 capo del reparto D del Sid, citato da Milani, vicenda che s’intreccia con le informative fornite all’epoca da Tramonte al Sid.
Nato nel 1952, nell’autunno 1972 Tramonte viene attivato come fonte del SID, col criptonimo di Tritone. Collabora in questa veste con il Centro Controspionaggio di Padova, a cui fornisce per mesi informazioni sul mondo della destra eversiva. La sua collaborazione produce un’imponente mole di “veline”. Alcune sono relative a incontri che si sarebbero tenuti nella casa di un dirigente missino, Giangastone Romani, direttore di un albergo ad Abano Terme. In uno di questi documenti si accenna esplicitamente alla “… creazione di una nuova organizzazione extraparlamentare di destra che comprenderà parte degli ex militanti di Ordine Nuovo. L’organizzazione sarà strutturata in due tronconi. Uno clandestino … Opererà con la denominazione Ordine Nero sul terreno dell’eversione violenta contro obiettivi che verranno scelti di volta in volta. L’altro palese, il quale si appoggerà a circoli culturali … avrà il compito di sfruttare politicamente le ripercussioni degli attentati operati dal gruppo clandestino”. Inoltre, sono presenti accenni espliciti proprio alla strage di Piazza della Loggia: “Nel commentare i fatti di Brescia Maggi ha affermato che quell’attentato non deve rimanere un fatto isolato, perché il sistema va abbattuto mediante attacchi continui che ne accentuino la crisi … L’obiettivo è di aprire un conflitto interno risolvibile solo con lo scontro armato… Lo stesso Maggi e Romani avevano espresso l’intenzione - qualche giorno dopo la strage - di stilare un comunicato da far pervenire alla stampa … Maggi e Romani si proponevano in un primo tempo di accentuare lo sgomento diffusosi nel paese dopo l’attentato di Brescia…”.
Pur essendo stato informato per tempo delle notizie provenienti da “Tritone” , il 29 agosto 1974 Maletti affermò davanti al Giudice istruttore di non avere notizie circa la strage. L’ex generale, dunque, ebbe la possibilità di consegnare alla magistratura quel materiale informativo, emerso successivamente solo nei primi anni ’90, che avrebbe potuto indirizzare le indagini da subito sulla “pista veneta”. Anche la sentenza d’appello rileva che “nessuna chiarificazione sulle vicende sin qui esposte è emersa dall’esame del Gen. Maletti che si è trincerato dietro non ricordo né ha fornito adeguate spiegazioni al perché, allorchè fu sentito dal Giudice istruttore presso il Tribunale di Brescia il 29.8.1974, nessuna notizia fornì in relazione agli appunti della fonte Tritone nonostante avesse già ordinato di comunicare all’autorità giudiziaria le notizie apprese dalle fonti”.
Un altro elemento interessante sui depistaggi lo si ottiene ragionando sulla datazione della velina n. 4873 dell’8 luglio 1974, centrale nelle indagini dei PM. Ebbene, a grandi linee almeno la parte della velina in cui Tramonte parla della riunione del 25 maggio a casa di Romani (in cui, secondo l’accusa, vennero decisi i dettagli della strage) era già precedentemente nota ai Carabinieri di Padova. Se ne trovano tracce nel Rapporto Investigativo Speciale sottoscritto dal ten. Col. Manlio del Gaudio il 7 giugno 1974: “gli sbandati di Ordine Nuovo, secondo una indiscrezione trapelata localmente, stanno dando vita ad una nuova organizzazione dalle due facce: una palese, sotto forma di circoli culturali l’altra, occulta, strutturata in gruppi ristrettissimi per dar vita ad azioni contro obiettivi scelti di volta in volta”. Un testo che rispecchia quasi letteralmente il contenuto del monologo tenuto da Maggi il 25 maggio 1974, così come riferito da Tramonte nella succitata velina dell’8 luglio. Sembrerebbe dunque che quanto raccontato da Tritone fosse, almeno in parte, noto al centro di controspionaggio di Padova sin dai giorni immediatamente successivi al 28 maggio.

I pubblici ministeri avevano scandagliato anche i rapporti fra il discusso generale dei carabinieri Delfino (capitano all’epoca dei fatti) e Gianni Maifredi (una sorta di “pentito” che consegnò nelle mani di Delfino “l’operazione basilico” favorendo lo smantellamento del MAR di Fumagalli). Clara Tonoli, all’epoca compagna di Maifredi, ha parlato di un rapporto assiduo fra i due, sostenendo che il proprio convivente, anche poco prima della strage, custodiva ordigni esplosivi e armi. Secondo la donna, subito dopo il mattino del 28 maggio Maifredi le disse che Delfino aveva deciso che la famiglia si dovesse allontanare da Brescia per ragioni di sicurezza. In quei giorni l’uomo le avrebbe confidato che l’attentato aveva avuto effetti più devastanti di quelli programmati.
Su Delfino i giudici d’appello, pur confermando l’assoluzione, hanno pronunciato dure critiche, parlando di una condotta “estrinsecata in plurimi atti abusivi (e non semplicemente eccedenti quelli ortodossi)” e di una “spregiudicata attività investigativa … che ha poi finito per inquinarne le risultanze probatorie”.

L’impianto accusatorio dell’ultimo processo avrebbe dunque probabilmente portato alla sbarra pure altri imputati, se questi non fossero precedentemente scomparsi (i già citati Digilio e Soffiati, l’ordinovista Melioli e Romani, per citarne alcuni), indipendentemente da quello che sarebbe stato, in ipotesi, il verdetto su questi soggetti. Inoltre, proprio due dei sei imputati dell’ultima istruttoria sono deceduti in questi mesi: Giovanni Maifredi il 3 luglio 2009, durante il primo grado; Pino Rauti il 2 novembre 2012, dopo l’appello: la ricerca della verità su Piazza della Loggia è anche una lotta contro il tempo…

Certo, il raggio di sole che, per citare ancora Beppe Montanti, è uscito dalla Cassazione non può e non deve fare dimenticare altre cose. Che in quella strage che colpì una manifestazione antifascista hanno perso la vita 8 persone; che quattro istruttorie e una dozzina di gradi di giudizio non hanno consegnato, per ora, nessun colpevole con sentenze passate in giudicato; che questa “impotenza” della giustizia ha avuto già troppi precedenti in casi analoghi di stragi storicamente ascrivibili alla destra neofascista e con “aderenze” negli apparati dello Stato; che queste “falle” della giustizia dei tribunali hanno già abbondantemente alimentato un revisionismo storico che ha cercato persino di rimettere in discussione la matrice fascista di certi attentati…

Tutto vero.

Ma ora si apre un’altra storia. E gli ultimi imputati su cui dovrà pronunciarsi una Corte sono Maggi e Tramonte: soggetti significativi anche simbolicamente (come detto l’uno rappresenta il vertice ordinovista nel Veneto; l’altro rappresenta le ambigue connessioni fra la destra eversiva e gli apparati di sicurezza statali).
Sì, la ricerca della verità su Piazza della Loggia è anche una lotta contro il tempo… Ma è una lotta estremamente attuale, nonostante i decenni passati, se si vogliono dare risposte anche giudiziarie su ciò che è stata l’Italia negli anni della strategia della tensione.

Francesco “baro” Barilli

venerdì 14 febbraio 2014

Riflessione sul web: una risposta a Diego Cajelli

Diego Cajelli ha recentemente scritto una interessante e ben argomentata riflessione (“si stava meglio con il 56k?”) sul suo blog. Non la riassumo, vi invito a leggerla: è lunga ma va letta tutta.
Peraltro, essendo anch’io notoriamente prolisso, condivido innanzitutto l’incipit di Diego, in cui sottolinea il malvezzo (ormai assai diffuso, e non solo in internet…) di leggere solo post brevissimi o l’inizio di post più lunghi. Aggiungerei a questo malvezzo quello, a mio avviso intellettualmente ancora più pericoloso nonché paradigmatico dei tristi tempi in cui viviamo, di scrivere su qualsiasi argomento NON delle riflessioni, ma brevi “sentenze”, come se si potesse racchiudere ogni esperienza in 140 caratteri… Come se le infinite possibilità di internet concretizzassero NON l’aspirazione a riflettere su un dato argomento, ma bensì il poterlo sintetizzare con aforismi da Baci Perugina (nella migliore delle ipotesi) oppure con frasi di feroce sarcasmo (nella peggiore). Insomma: si è passati dalla banalità del male alla malvagità del banale…

Quindi, ripeto: leggete il pezzo di Diego. E pure il mio non sarà breve.

Eccoci dunque alla riflessione di Cajelli. Che, in sostanza, lamenta la vera e fattuale ricaduta di internet nelle nostre vite, ben lontana da quella che poteva e doveva essere in teoria e potenzialità. Ossia: internet è un mezzo che poteva cambiare il mondo, non tanto per i soli e oggettivi “orizzonti tecnologici” che dischiudeva, ma perché aveva in sé le potenzialità per favorire una socializzazione diversa e globalizzata (diffondendo sapere e cultura, tanto per semplificare). Alla prova dei fatti (e, preciso, per quanto è possibile vedere oggi) Diego si sofferma in particolare sulle “bufale via web” e dice: “la nostra esistenza reticolare nel mondo è fatta di bufale, di minorati mentali che girano video con migliaia di visualizzazioni, di scie chimiche, di complottisti geotaggati e di like che se vuoi puoi anche comprarli. Tim Berners-Lee e Robert Cailliau si sono dimenticati un pezzetto fondamentale della loro equazione: non hanno considerato come gli utenti avrebbero usato il web.”

Tutto sicuramente triste. E vero.
E l’analisi di Diego è condivisibile (in parte: vedremo poi perché) mentre la soluzione che propone (forse solo provocatoriamente: una censura/chiusura di certi siti) mi sembra un rimedio peggiore del male.

Allora: ho già detto d’essere prolisso (come Diego). Probabilmente con lui condivido anche una naturale tendenza alla nostalgia. Lo dico “a naso”, non conoscendolo se non “virtualmente”, ma sta di fatto che pure io ricordo con nostalgia i “bei tempi” di un web più ristretto e meno diffuso, in cui si poteva commentare il mondo e – persino – sembrava di poterlo cambiare. E non starò a ripetere quanto ho già detto troppe volte in passato sull’importanza del web nel far venire alla luce i fatti di Genova 2001. Quelli che, chi mi conosce lo sa, mi hanno spinto a scrivere. Ma questa, come dice Lucarelli, è un’altra storia…
Sì, è vero, quell’internet fatto di “pochi eletti” era un salotto in cui scambiare opinioni arricchendosi vicendevolmente, non la bolgia sguaiata di oggi. Ma la “gggente” (come dice Diego) che ha sconvolto quella sorta di Eden sul web di prima generazione non è nata dopo. Era sulla soglia, in attesa di poter entrare nel salotto che credevamo nostro. Per essere più brutale: la “gggente” era già in agguato. La semplificazione tecnologica che ha portato a far sì che la “vita on line” sia accessibile a tutti è solo il mezzo che ha prodotto gli attuali effetti. Non la causa.

Io non credo si possa disgiungere un dibattito su “cos’è diventato il web” dal tema, a mio avviso più interessante e importante per quanto sottaciuto, su cos’è diventata la società (almeno quella italiana) dopo almeno trent’anni di pessima politica, cattiva ed asservita informazione, progressiva deconsiderazione di tutto ciò che è cultura. Almeno qui in Italia l’effetto è stato devastante e riverbera sul web. Non ho abbastanza conoscenze e competenza per esprimermi su altri Paesi, ma penso stiano un pizzico meglio: ad altre latitudini il web è temuto perché costruisce opposizione sociale (o addirittura rivoluzioni), produce pensiero “critico”; da noi serve per esprimersi su Sanremo o X Factor.

Tornando alla riflessione di Diego: una chiusura o censura del web (o di certi siti) potrebbe essere davvero la soluzione (al di là della mia idiosincrasia verso ogni forma di limitazione della libertà)? Ma, soprattutto: televisioni, giornali, editoria... stanno davvero meglio del web???

Diego ricorda che “L’omino nella foto che apre questo post una volta ha detto: Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità.”
“L’omino” era Joseph Goebbels, gerarca nazista. Può essere dunque utile ricordare cosa diceva un altro gerarca nazista (Goering) dei pacifisti: “Naturalmente la gente comune non vuole la guerra … Ma, dopotutto, sono i governanti del paese che determinano la politica, ed è sempre facile trascinare con sè il popolo, sia che si tratti di una democrazia, o di una dittatura … Che abbia voce o no, il popolo può essere sempre portato al volere dei capi. E’ facile. Tutto quello che dovete fare è dir loro che sono attaccati, e denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo e in quanto espongono il paese al pericolo. Funziona allo stesso modo in tutti i paesi.”

E’ tragico, più che triste, citare due gerarchi nazisti per rilevare quale sia la logica del potere (e di chi lo gestisce) e notare quanto poco sia cambiata. Sono cambiati i mezzi, certo, non la prospettiva. E non è mutata l’antipatia innata del potere verso il libero pensiero e tutto ciò che può produrlo. Se una volta questa innata antipatia creava censura, oggi genera (anche) lo svilimento di quei mezzi, tra cui internet, dove il libero pensiero potrebbe circolare.
Un web dove prosperano bufale e castronerie è assai utile, per questi fini. Ma chiuderlo o censurarlo non sarebbe la soluzione, quanto il segno di una sconfitta.

Francesco “baro” Barilli