martedì 21 gennaio 2014

Ricordiamo Roberto Franceschi…

Il revisionismo storico è sempre in agguato. E, abbiamo visto recentemente, si presenta anche sotto la forma di fiction televisive… Quindi (visto che è meglio prevenire…) dopo aver parlato del caso Pinelli, torno a “saccheggiare” “La Piuma e la Montagna” (Manifestolibri, 2008), libro curato da me e Sergio Sinigaglia. Lo faccio nell’imminenza di un altro anniversario: quello dell’uccisione di Roberto Franceschi, colpito da un proiettile sparato dalla polizia il 23 gennaio 1973 e morto pochi giorni dopo in ospedale.

Così facendo, dopo Licia Pinelli vi presento un’altra donna eccezionale: Lydia Franceschi, madre di Roberto.

La mia intervista a Lydia è del novembre 2007: come già accennato, è apparsa su “La piuma e la montagna”.

Su Roberto Franceschi segnalo anche l’ottimo “Roberto Franceschi, processo di polizia”, di Daniele Biacchessi.

*****

Intervista a Lydia Franceschi

Francesco:
Volevo innanzitutto chiederti qualcosa sui primi tempi, sugli anni in cui nasce Roberto.

Lydia:
Era il periodo in cui fascismo e nazismo erano crollati, e con loro se n’era andata la paura dei bombardamenti, dei rastrellamenti, delle deportazioni… Credevamo che mai più avremmo sofferto a causa della guerra e, in particolare, di una dittatura che ci aveva impedito di realizzarci in una società libera e democratica. Questo dava alla nostra giovinezza una prospettiva ed una positività tutta particolare anche perché ci sembrava che la società libera e democratica, che avevamo sognato, fosse a portata di mano.
Roberto e Cristina sono nati in questo contesto. Non erano solo figli voluti e amati, rappresentavano pure la continuità delle nostre speranze e delle nostre lotte. Già dalla loro infanzia avevano sviluppato sensibilità nei confronti dei problemi sociali, anche perché in casa se ne parlava tranquillamente.
Il lavoro di mio marito ci portò a Gela, dove ci confrontammo con una mentalità ancora arretrata, con condizioni di vita di una buona parte della popolazione assolutamente inadeguate, in contrasto con quelle della borghesia, un divario economico e sociale spaventoso fra i ceti benestanti e quelli poveri. Credo che anche questo impatto determinò la formazione culturale e, in futuro, l’impegno sociale dei nostri figli. Tornammo a Milano nel 1967. A quel tempo Roberto frequentava il secondo anno del liceo scientifico. Erano anni di fermenti che avrebbero portato alle lotte studentesche.

Francesco:
L’ambiente che gravitava attorno alla scuola com’era? Ricettivo, rispetto alle domande degli studenti? E volevo chiederti anche come tu seguivi le attività di Roberto: ci furono magari contrasti, anche solo circoscrivibili alla “normalità generazionale”, fra di voi?

Lydia:
Sulla tua prima domanda, ricordo un episodio al termine di un'occupazione. Il preside aveva convocato un'assemblea dei genitori: un’esperienza terribile. Gigi, uno studente che aveva cercato di spiegare le ragioni dell'occupazione, fu aggredito verbalmente, ed io, che avevo preso la parola a sostegno degli studenti, fui sommersa da un coro d'insulti anche molto volgari. Non sono mai riuscita a capire il motivo di una rabbia così cieca e irrazionale nei confronti di ragazzi, per di più propri figli, anche se quei genitori potevano non ritenere giuste le proteste e le richieste di rinnovamento che essi andavano esprimendo. Io ho lavorato nella scuola, per cui ho vissuto quegli anni sotto molti punti di vista, come docente e come madre: era una scuola selettiva, arcaica e inadeguata, impermeabile ai nuovi bisogni e alle nuove culture che la società stava esprimendo. E la situazione della scuola rifletteva quella in cui versava lo Stato in generale: la Repubblica e la Costituzione non avevano cambiato la mentalità fascista, né una certa concezione dell’uso del potere. Mancava un rinnovamento, sia nelle persone sia nella mentalità dominante.
Per quanto riguarda i rapporti fra me e Roberto, no, non ci furono contrasti. Molto rapporto dialettico a volte anche duro, ma affetto e stima erano sempre immensi e reciproci. Forse perché io non ero più così reattiva come un tempo, e poi vivevo la paura tipica di una madre: quella che Roberto si esponesse troppo, che la polizia lo potesse fermare e incolpare per fatti a lui non attinenti, che fosse vittima delle spedizioni fasciste.
Ma quando lui mi chiese di costituire il Comitato genitori democratici del Vittorio Veneto (il suo liceo) accettai senza alcuna perplessità, anzi, felice della sua richiesta.

Francesco:
Furono anni difficili?

Lydia:
Gli anni davvero difficili vennero dopo... Il 12 dicembre del 1970, il primo anniversario della strage di piazza Fontana, Roberto tornò sconvolto dalla manifestazione che gli studenti avevano organizzato... I poliziotti avevano sparato candelotti lacrimogeni ad altezza d'uomo, e uno di questi aveva ucciso uno studente, Saverio Saltarelli. Un suo amico e compagno di liceo, colpito, s'era salvato solo fortuitamente. Fu il primo impatto di Roberto con la violenza dello stato. Non poteva credere che la polizia potesse sparare per uccidere, soprattutto in una manifestazione che voleva ricordare le vittime di piazza Fontana e la morte di Giuseppe Pinelli. Ne uscì traumatizzato, e ricordo che ne parlammo per tutta la notte.
Un’altra volta, nel giugno 72, la polizia entrò armata nell'Università Statale, durante un'assemblea del Movimento studentesco. Roberto riuscì a scappare saltando il muro di cinta dell'università, mentre altri studenti venivano circondati in un cortile dell'università dagli agenti armati. Furono fatti uscire fra due ali di polizia e caricati sui cellulari. Molti furono percossi...
Ricordo anche il 12 dicembre 1972, terzo anniversario della strage di piazza Fontana. Roberto mi informò che, anche se  il questore di Milano Allitto Bonanno aveva proibito la manifestazione degli studenti, il Movimento studentesco non avrebbe rinunciato ad andare in piazza: avrebbero fatto contemporaneamente tante manifestazioni in ciascuna delle venti zone di Milano. Quella mattina ero angosciata: l'insofferenza verso gli studenti, soprattutto da parte delle gerarchie delle forze dell’ordine ma anche dell'università, era senza freni. C’era l’aria dello scontro, per “dare una lezione” al Movimento, agli studenti.
Mentre Roberto stava per uscire gli dissi: "Stai attento, ti raccomando, non esporti".
"Perché, è sbagliato quello che faccio?..." mi domandò.
"No, anzi, è giusto", risposi, "ma io non sopravviverei se ti capitasse qualche incidente."
Alle mie parole, lui tornò indietro e mi disse: "Se mi dovesse capitare qualcosa, tu devi continuare nella mia lotta...". Questa frase è oggi incisa sulla porta della cappella nel cimitero di Dorga, dove è sepolto.

Francesco:
Purtroppo sono arrivato a chiederti di quella sera, 23 gennaio 1973…

Lydia:
Quella sera Roberto decise all’ultimo momento di andare all’assemblea studentesca alla Bocconi: in teoria saremmo dovuti andare tutti a teatro, assieme anche alla sua ragazza.
Non ero preoccupata: non sembrava esserci una tensione maggiore rispetto a quella “consueta”. Non sapevamo e neppure gli studenti della Bocconi lo sapevano, che, in quell’occasione, il rettore Giordano Dell'Amore aveva imposto un divieto destinato a non rimanere solo teorico: a quell’assemblea potevano accedere solo studenti della Bocconi, e quindi NON studenti di altre facoltà, lavoratori eccetera. Per di più, a sorvegliare il rispetto di quell’ordine, c’era un massiccio schieramento del III reparto Celere, al comando del tenente Addante.
Seppi qualcosa di quanto successo solo al nostro rientro dal teatro, quando squillò il telefono. Era il suo amico Francesco Fenghi, che ci diceva di andare subito al Policlinico perché Roberto non si era sentito bene. Al Policlinico ci indirizzarono al padiglione Beretta, che in quel momento non sapevo essere quello della rianimazione. Sulle prime non incontrammo nessuno... Non mi rimase che aprire le porte fino a quando lo intravidi, disteso su un lettino, con attorno alcuni medici; lo sentii tossire e mi venne spontaneo dire che in quei giorni aveva un po' di bronchite: immediatamente mi fecero uscire, assicurando che sarebbero venuti subito a darci tutte le informazioni.
Fu il professor Poli ad informarci… Ci disse subito che si trattava di un proiettile, ma non ci parlò della gravità della ferita forse perchè vide la disperazioni negli occhi di noi tre. Dichiarò solo che non era operabile, almeno per il momento, e che il mattino successivo avrebbe avuto un consulto con il direttore del reparto rianimazione.

Francesco:
Quando hai potuto vederlo?

Lydia:
Poco dopo, quando fu portato in reparto. Aveva il viso tumefatto e sfigurato.. Era stato raggiunto da una pallottola da dietro, alla nuca, ma aveva preso anche una botta sul marciapiede quando, colpito, era caduto col volto all'ingiù. I suoi occhi cercavano i nostri con una espressione che chiedeva: cosa è successo? Dove sono?…Pensai che avesse difficoltà a parlare e non gli feci domande… non sapevo che non avrei mai più riudito la sua voce.

Francesco:
Ci furono altri feriti, quella sera?

Lydia:
Sì: Ci furono feriti che non si rivolsero a strutture pubbliche mentre Roberto Piacentini, un operaio che stava vicino a Roberto, colpito alla schiena all'altezza della spalla destra, per la gravità della ferita, fu ricoverato al Policlinico. Furono tutti colpi sparati ad altezza d'uomo, con intento omicida, e per di più esplosi quando gli studenti voltavano già le spalle: Roberto quella sera indossava un maglione bianco a collo alto. La pallottola lo raggiunse proprio dove terminava il maglione. (quanto io affermo è confermato da una sentenza civile, dopo 26 anni di iter giudiziario, dalla corte d’appello di Milano: “…consente di affermare che in base alle emergenze penali può ritenersi pienamente provato che il proiettile estratto dalla nuca di R.F. fu esploso dalla pistola in dotazione all’agente di polizia Gallo Gianni, che la pistola fu impugnata e il colpo sparato da una persona appartenente alle forze dell’ordine e che l’uso dell’arma, lungi dall’essere un episodio isolato, si inquadrava in un ricorso generalizzato all’impiego delle armi da fuoco nei confronti di manifestanti che si stavano allontanando dal cordone costituito dagli agenti e, quindi, in assenza di presupposti che ne potessero far ritenere legittimo l’uso..”)

Francesco:
So che Roberto non morì subito…

Lydia:
Esatto, non riprese mai conoscenza. I medici dissero subito che era entrato in coma profondo. Morì dopo otto giorni terribili in cui pur non allontanandoci né di giorno né di notte dal reparto ci era concesso di vederlo solo per alcuni minuti. Seguii la sua agonia dal buco della serratura, che mi permetteva di vedere almeno i suoi piedi. Riuscii a stare con lui solo la domenica pomeriggio per circa un'ora, perché si era allentata la sorveglianza, quando lo chiamai aprì gli occhi e mi guardò, come a chiedere “perché ?”... Sembrava volesse dire tante cose... Poi mi allontanarono bruscamente. Fu il nostro ultimo silenzioso colloquio e l’ultima volta che lo abbracciai ancora vivo.

Francesco:
I medici, quindi, non ti diedero mai speranze di ripresa?

Lydia:
La speranza c’era solo dentro di me.… speravo che una mattina un medico mi dicesse: "C'è un piccolissimo miglioramento". In realtà i medici furono molto netti. Il professor Maspes, direttore del reparto rianimazione, mi diceva: "Se suo figlio dovesse uscire dal coma rimarrebbe paralizzato per tutta la vita. E anche la sua intelligenza sarebbe compromessa..."
"A me sta bene, ma lei deve fare l'impossibile perché sopravviva!", rispondevo. Ricordo che lui una volta mi rispose: "Non vede che stiamo cercando di mantenerlo in vita, al di là delle possibilità che oggi ha la medicina? Anche l'onorevole Rumor - il ministro degli Interni dell'epoca - mi telefona quasi quotidianamente per chiedermi la stessa cosa, e fosse solamente lui! Non ho più un momento di pace, un attimo per la mia vita familiare”.

Francesco:
Quindi tu, già in quel momento, sapevi che la vicenda di Roberto andava al di là della dimensione personale?

Lydia:
Diciamo che avrei dovuto capirlo, ma a dire il vero in quei giorni ogni mia energia era indirizzata solo su mio figlio. La consapevolezza venne dopo.

Francesco:
E, a proposito di consapevolezza e di “dimensione pubblica” del fatto, i giornali di quei giorni come parlarono dell’accaduto?

Lydia:
Nell’immediato ci furono delle versioni scandalose: Alcuni giornali sostenevano che Roberto era stato colpito da un sasso lanciato dai suoi stessi compagni! Una versione che, purtroppo, abbiamo sentito pure in altri casi seguenti, anche molto recenti (penso, per esempio, a Carlo Giuliani).
Ma la vicenda aveva assunto dimensioni troppo grosse: la storia di due giovani feriti, uno al capo e l'altro alla schiena, da colpi d'arma da fuoco, non puoi metterla a tacere così facilmente. Prima ti dicevo che il professor Maspes mi aveva parlato dell’interessamento di Rumor: il ministro degli Interni aveva dovuto rispondere al Parlamento di fronte a numerose interrogazioni sugli incidenti del 23 gennaio. Insomma, la cosa aveva assunto dimensioni che lasciavano poco spazio ad invenzioni: era stata la polizia a sparare!
In breve tempo tutti i giornali riportarono la notizia nelle prime pagine, ma la Questura fornì comunque versioni dei fatti molto diverse, nel giro di poco tempo.

Francesco:
Sulle versioni della Questura torneremo fra poco, parlando della vicenda processuale. Ora volevo fermarmi ad una considerazione più generale. Come tu sai, da tempo mi occupo di vicende come la tua, che hanno insanguinato il nostro Paese dal dopoguerra ad oggi: vittime delle stragi, ragazzi uccisi dalle forze dell'ordine o dallo squadrismo neofascista… Fatti diversi ma uniti da un'unica strategia: la negazione della verità da parte degli apparati dello Stato. Molti di voi, parenti o amici delle vittime, hanno scelto di cercare verità e giustizia non solo per i propri cari direttamente colpiti, ma per tutti. Volevo sentire da te come e perché è nata questa tensione ideale.

Lydia:
Per quanto mi riguarda, è nata per passione politica personale ed è legata anche alla storia della mia famiglia d’origine: avevo seguito i fatti di Portella delle Ginestre, di Modena, di Genova -Tambroni, di Reggio Emilia, di Avola, di Isola Liri… E poi i giovani: l'anarchico Franco Serantini, ucciso dalla Celere a Pisa, Giuseppe Pinelli e il suo strano volo dalla finestra della questura di Milano, Saverio Saltarelli entrambi caduti a Milano, le vittime di piazza Fontana… Erano tutti episodi di cui avevo parlato a lungo proprio con Roberto. Morti tragiche che si era sempre cercato di far passare rapidamente sotto silenzio, coprendole con depistaggi, omissioni, silenzi che hanno sempre impedito di arrivare alla verità e alla giustizia. E purtroppo quella lista non si è fermata con Roberto, anzi, si è allungata anche in tempi recenti per non dire recentissimi.
Per me era naturale che Roberto lo si dovesse ricordare non in modo isolato: era anche lui vittima “del sistema”, in particolare della polizia usata in senso antidemocratico e repressivo, a salvaguardia degli interessi dei potenti. Anche il monumento che hanno eretto dove fu ucciso si inserisce in questa logica.

Francesco
Come nacque l’idea del monumento?

Lydia:
E’ una storia molto lunga. Già solo due mesi dopo la morte di Roberto, i compagni del Movimento studentesco avevano posto, proprio dove Roberto era caduto (che poi è lo stesso posto dove oggi è collocato il maglio), una lapide.con la scritta: "Qui è caduto, il 23 gennaio 1973, di fronte alla sua università, Roberto Franceschi, mentre combatteva per la democrazia nella scuola e per il socialismo".
Era semplice, di marmo, posata direttamente sul terreno con un fazzoletto di prato attorno. Spesso fu oggetto di vandalismi: alcuni la infrangevano, altri toglievano i fiori che mani amiche posavano attorno, ma io non mi rassegnavo a sostituirla, ogni volta la facevo riaggiustare.
Oltre ai vandalismi, c’erano le lettere anonime, molto spiacevoli… Ma anche quelle non mi facevano arrendere. Anzi, mi dicevo che tutto questo significava che era giusto lasciare in quel posto un segno, qualcosa che colpisse e obbligasse a riflettere, soprattutto sull’uso politico e sociale della violenza.
Nel primo anniversario della morte di Roberto, gli studenti interpellarono lo scultore Alik Cavaliere affinché scolpisse qualcosa da mettere al posto della lapide. Un’idea che mi piacque da subito, ma devo dire che in quel momento non immaginavo gli sviluppi e l’impatto successivi.
Cavaliere decise di coinvolgere altri artisti. Ricordo di aver visto molti bozzetti (furono esposti al parco Ravizza in occasione di una festa del Movimento studentesco, nel 1974). Com’è ovvio, alcuni mi piacevano, altri meno, altri per niente, altri ancora mi lasciavano perplessa. Però pensavo che erano gli studenti a promuovere l’idea, per cui era giusto fossero loro a decidere e a portarla a termine.
Non ricordo esattamente quando (verso la fine del 1975 o all'inizio del 1976), fui contattata da Enzo Mari: lui e Alik Cavaliere mi convinsero a riprendere il progetto, cercando di portarlo a compimento. Ci dicevamo che non doveva essere solo un oggetto “consolatorio” ma tornare alla radice latina della parola monimento, ammonimento. Oggi ha perso questo significato perché spesso un monumento è quello strumento per “sistemarsi la coscienza”, per cercare di pagare debiti di sangue che non hanno prezzo. Per me il monumento doveva essere denuncia e ricordo, non “consolazione”, non qualcosa che vuole placare gli animi, non qualcosa che propone un’improbabile pacificazione fra vittime e carnefici.
Tra l’altro, nel frattempo, avevo maturato anche altri motivi che mi portavano all’idea di un oggetto che fosse un omaggio non solo a mio figlio, ma a tutti quelli che, dal ‘45 ad oggi, erano morti per colpa del potere. Avevo instaurato un rapporto umano e intellettuale con molti familiari di quelle vittime. I parenti dei morti di Modena del 1950, quelli di Reggio Emilia, quelli più vicini temporalmente a Roberto: Pinelli, Lupo, Brasili, Amoroso, Saltarelli, Varalli, Zibecchi… E poi alcuni parenti delle vittime della strage di piazza della Loggia a Brescia: Trebeschi, Bottardi, Pinto. Sono molte persone le cui storie in seguito hai conosciuto pure tu… Persone che non hanno abdicato alla rassegnazione, che raccontano vicende quasi sempre irrisolte dalla magistratura.

Francesco:
Alla fine fu scelto un maglio di ferro alto sette metri; su una lastra di bronzo sono impresse le parole “A Roberto Franceschi e a tutti coloro che nella nuova Resistenza dal ‘45 ad oggi caddero nella lotta per affermare che i mezzi di produzione devono appartenere al proletariato”.

Lydia:
Credo che alla fine sia stato centrato l’obbiettivo. Un oggetto che serve a ricordare, certo, ma che è impregnato di lotte, di dolore, di traguardi raggiunti e di sconfitte come la storia dell’umanità. Non è un monumento “generico”, che potrebbe avere altre collocazioni o altri scopi. Serve da ammonimento, come è per i forni crematori, le Fosse Ardeatine, altri luoghi di sterminio, di torture o di eccidi. Un’ammonizione per tutti: anch’io, quando passo davanti al maglio, penso non solo a Roberto, ma agli anni della dittatura e delle persecuzioni razziali, a quelli successivi alla teoria degli opposti estremismi, alle vittime della “legge Reale”. Spero che altri, passando lì davanti, siano presi dalla stessa emozione per tanti giovani morti innocenti.

Francesco:
Hai qualche episodio da raccontare, riguardo al monumento?

Lydia:
Mi piace ricordare che il progetto fu presentato anche in altre città, a Pavia, Bergamo, e a Brescia, per il legame che mi univa ai parenti delle vittime di piazza della Loggia. Mi soffermo in particolare su Brescia: quell'anno il Comune aveva posto una stele nel luogo dell'esplosione, senza però aprire preventivamente una discussione con la cittadinanza e con i diretti interessati. Ricordo l’intervento di Manlio Milani. Manlio non è solo il presidente della Associazione dei caduti di Piazza della Loggia, ma pure marito di una delle vittime, Livia Bottardi, che quel giorno gli morì fra le braccia… Quel giorno disse: "Questa stele non rappresenta assolutamente lo spirito e la partecipazione costante di Brescia. Vorrei rivolgere un appello a tutte le forze democratiche e sociali della città per aprire un dibattito, come è stato fatto per Franceschi, sul monumento in piazza della Loggia, che veda i compagni caduti il 28 maggio 1974 uniti, in una continuità ideale, ai compagni caduti durante la Resistenza. Se ciò non avvenisse, la responsabilità storica ricadrebbe su quelle forze che, per interessi di parte, pretendono di far cadere il silenzio su questa strage”. Quelle parole mi convinsero che il progetto che avevamo portato avanti a Milano era quello più corretto.
Mi piace ricordare il 23 gennaio 1983 quando il Siulp milanese (sindacato dei poliziotti democratici) ha deposto sul monumento una corona con la scritta: "A Roberto Franceschi i poliziotti democratici”. Un segno che mi fece sperare moltissimo. Devo aggiungere, con dolore, di aver constatato negli ultimi anni come i sindacati di polizia abbiano fatto parecchi passi indietro rispetto a quei tempi. Il percorso faticoso che si stava compiendo sembra essersi interrotto: basta pensare ai fatti di Genova, a Federico Aldrovandi a Gabriele Sandri…

Francesco:
Volevo che tu mi parlassi ora della vicenda processuale, delle versioni della Questura, cui accennavamo prima.

Lydia:
La questura si distinse per un balletto di versioni. In un primo momento la tesi era questa: l'agente Gallo aveva sparato due colpi (e solo quelli…) che avevano raggiunto Roberto e Piacentini. Poi si corressero parzialmente: lo stesso agente aveva esploso quattro colpi, due in aria e due che avevano colpito i bersagli. La terza versione “divideva” i 4 spari: due colpi li aveva sparati l'agente Gallo e altri due il vicebrigadiere Puglisi. Secondo la quarta versione avevano sparato l'agente Gallo, il vicebrigadiere Puglisi e un altro agente.
Oltre a questo balletto di versioni, ci furono alcuni avvicendamenti nelle indagini. Il primo sostituto procuratore era Antonio Pivotti: aveva raccolto alcune testimonianze che voleva approfondire, non accettava supinamente la versione della polizia, ma le indagini, dopo solo otto giorni, furono affidate al nuovo sostituto, Elio Vaccari. Anche a Vaccari fu tolta l’inchiesta, proprio quando stava per accusare alcuni alti funzionari di polizia e data al giudice istruttore. La versione ufficiale e, diciamo così, “definitiva” della Questura fu alla fine questa: a sparare era stato solamente l'agente Gallo in un momento di raptus. Una versione banale, che non teneva conto di diverse circostanze già emerse: la pistola di Gallo e quelle di altri agenti risultavano manomesse, alcuni rapporti redatti da responsabili del III reparto Celere erano falsi, i bossoli di pistola ritrovati sul luogo del delitto erano più di dieci (altri bossoli sparirono dopo essere stati raccolti dalle guardie e consegnati ai superiori), il numero degli sparatori era almeno di cinque soggetti (ed alcuni avrebbero usato armi non in loro dotazione). E potrei andare avanti con elementi sempre più inquietanti: pensa che la versione della polizia fu successivamente smentita da alcuni testimoni, tra i quali un avvocato di Stato, che parlarono di numerosissimi colpi di pistola e notarono un uomo in abito grigio, vicino alle prime macchine della colonna della Celere, che sparava verso gli studenti a braccio teso.
In generale la versione ufficiale tentava di diminuire il numero dei colpi esplosi e contemporaneamente di aumentare l’entità della "minaccia" portata dai ragazzi. Poi, si cercò di scaricare l’omicidio sul solo Gianni Gallo, invocando il suo presunto stato di panico… L’inchiesta dovette superare un muro di omertà, reticenze e prove sottratte o falsificate, ma comunque arrivò a stabilire che erano almeno 5 gli agenti o funzionari che avevano sparato: con un’analisi del genere mi sembra sia difficile parlare di una decisione di singoli di fare uso delle armi, ed altrettanto improbabile mi sembra l’affermazione che un solo agente avrebbe esploso due soli colpi, e nonostante il suo presunto stato di panico avrebbe centrato i bersagli con precisione da cecchino…
Si arrivò ai processi, con qualche risultato “clamoroso”: oggi si può dire con certezza che Gallo, l’agente titolare della Beretta da cui erano stati esplosi i proiettili che avevano ucciso Roberto e ferito Piacentini, personalmente non aveva sparato neppure un colpo. Venne allora incriminato il vicequestore Paolella, che sosteneva di non essere stato armato e di non aver sparato. Risultò invece, da altre analisi di tipo chimico, che anche lui aveva sparato, quella sera; forse proprio con la pistola di Gallo, perché agli atti del processo restò una frase sibillina, che Gallo avrebbe detto ad un collega parlando della pistola: "Che cosa avresti fatto se un superiore te l'avesse chiesta... tu non l'avresti consegnata?". Ma anche Paolella fu assolto. Il brigadiere Puglisi e il capitano Savarese furono condannati per "falso ideologico" (ossia per avere contraffatto le prove e redatto verbali falsi per coprire le responsabilità) ma restarono gli unici condannati… Insomma, i colpi (mortale quello per Roberto, grave quello per Piacentini) erano partiti dalla pistola di Gallo, impugnata da qualcun altro, ma ufficialmente nessuno sa quello che accadde la notte del 23 gennaio. Chi sapeva ha preferito tacere, ed è terribile pensare che questo percorso di mancata giustizia è comune a molte altre vicende, che abbiamo ricordato prima, e che sembra prospettarsi anche per fatti molto recenti.

Francesco:
Perché poi ti occupasti del movimento dei poliziotti?

Lydia:
Probabilmente per una deformazione professionale. Nella scuola la mia attenzione è stata sempre rivolta verso gli studenti in difficoltà per motivi diversi, che cercavo di capire per aiutarli. Poiché non si nasce poliziotti mi interessava capire come si costruisce un poliziotto; su quali valori viene rieducata la sua mente al punto di vedere in una persona solo una sagoma da bersaglio? Incontrai in quegli anni alcuni poliziotti che facevano parte di quel movimento che cercava di prendere coscienza del loro ruolo di cittadini e di lavoratori rifiutando quello di sbirro imposto da coloro che per governare hanno bisogno di una polizia al servizio del potere. Ne ebbi la conferma durante il primo processo in Corte d’Assise quando il capo della polizia, il questore di Milano assieme a tre vicequestori, al colonnello comandante del III Celere, al cappellano militare, hanno continuato a mentire in maniera spudorata. Come può maturare negli agenti di polizia una coscienza civile avendo come maestri e comandanti questi tipi di superiori la cui mentalità si è perpetuata anche in quelli che oggi ricoprono  cariche.simili?
Una cosa vorrei ricordare, la memoria non è semplice ricordo del passato se vogliamo trasmettere il filo della democrazia, che con fatica abbiamo forgiato. Per questo, come famiglia di Roberto, abbiamo costituito la Fondazione Roberto Franceschi non solo per ricordare uno studente democratico ma soprattutto per continuare sulla scia dei valori e dei progetti di Roberto quando affermava che, come membri della comunità umana, abbiamo il dovere di ricercare strade nuove capaci di far rispettare i diritti universali in qualsiasi latitudine del nostro pianeta.

mercoledì 8 gennaio 2014

Su Pinelli: invece di guardare una fiction, leggete questa…

Accolgo l’invito del mio amico Alessandro Di Virgilio a parlare anche qui (su Facebook) della vicenda Pinelli-Calabresi. Per scelta, NON HO VISTO la fiction su Rai 1. E aggiungo che della questione ho parlato già molte volte in passato…
Ma, soprattutto, credo che la mia miglior risposta alla fiction di ieri sera sia questo link: è l’intervista che realizzai con Licia Pinelli nel gennaio 2008, apparsa su “La Piuma e la Montagna” (Manifestolibri, 2008), libro curato da me e Sergio Sinigaglia (e ne approfitto per mandare un caro saluto a Sergio!!!).

Ripescare quella intervista (datata ma sempre attuale) mi sembra, ripeto, la migliore risposta. O almeno è la migliore che posso dare io…


Volevo chiederti qualcosa su quegli anni, sulla militanza di Pino. E sulla vostra vita a Milano, anche paragonandola con il contesto attuale.

Sono situazioni totalmente diverse, quasi impossibili da confrontare. Un tempo c’era un clima molto più aperto, mentre oggi si ha un’impressione di estraneità, di distacco fra le persone, persino fra chi abita nello stesso condominio. Già un dialogo, un livello minimo di conoscenza, è difficile; l’idea di darsi una mano è addirittura impossibile. A questo discorso si collega pure la militanza di Pino. Devi sapere che, alcuni mesi prima di piazza Fontana, c’erano stati altri attentati (in diverse città italiane), e già in questi casi erano stati incolpati gli anarchici. Lui si era attivato subito dopo quelle prime accuse, cercando di portare aiuto. Ricordo gli scioperi della fame, lui che andava a portare da bere a chi era impegnato in iniziative di solidarietà.
Spiegarti cos’era Milano e la nostra vita è davvero difficile. Quel che voglio farti capire è che se oggi i rapporti interpersonali si mantengono al minimo essenziale, all’epoca era diverso. Vedi, all’epoca io battevo a macchina le tesi per diversi studenti, quindi casa nostra era sempre aperta e piena di ragazzi, ricordo la sensazione di avere sempre gente da noi. Quegli studenti venivano per le loro tesi, quindi anche in quel caso in teoria ci si poteva limitare a un rapporto “distaccato”; invece si finiva col parlare di tutto, anche e soprattutto di politica, perché pure quella faceva parte della vita, e il confronto era normale. E’ vero, erano tempi di conflittualità molto dura, ma c’era un atteggiamento aperto verso l’idea stessa di politica.
Pino, poi, figuriamoci!… Non gli pareva vero di poter intavolare una discussione su quegli argomenti; appena entrava in casa e trovava uno di quei ragazzi gli diceva subito “Io sono un anarchico. Voi come la pensate?”. Finiva spesso che io facevo da mangiare per tutti e con noi si fermavano anche quegli studenti.
Era una vita allegra, malgrado le difficoltà, le bambine piccole, il suo stipendio bassissimo. Ecco, questo mi dispiace: mi chiedevi di Milano come città, e io oggi la ricordo buia, scura, quando ci penso la vedo d’inverno, il cielo coperto come oggi. Probabilmente perché il ricordo di Milano di quell’epoca lo associo e si sovrappone proprio a quei giorni di dicembre 1969…

E tu come vivevi la militanza di tuo marito? Partecipavi anche tu?

Io non potevo essere parte attiva della sua militanza. C’erano le bambine piccole, la casa da mandare avanti, il mio lavoro, non sarebbe stato possibile. Ma il punto è un altro. Mi è difficile ricrearti quell’atmosfera, quella vita come “in una comune”, ma posso dirti che a me piaceva moltissimo. Mi piaceva lavorare, avere tutta quella gente per casa, sentire quei discorsi sulla politica: in un certo senso, per me, anche questa è un segno di militanza. Ti faccio un esempio: c’erano delle ragazze calabresi che in un primo tempo non riuscivano ad adattarsi a quello stile di vita aperto, abituate probabilmente ad uno più chiuso, rigido (tieni conto che all’epoca la distinzione, la necessità di separazione fra maschi e femmine, era molto netta). Però anche loro poi si inserirono, e lo fecero proprio perché vedevano in quel modo di fare qualcosa di normale e quotidiano: si sentivano come a casa loro. Poi, chiaro, se mi chiedi di una mia partecipazione diretta e attiva in faccende militanti, quella era impossibile.

Vuoi raccontare qualche aneddoto, dove si intrecciano famiglia e impegno politico?

Una volta Pino portò le due figlie piccole al Circolo del Ponte della Ghisolfa. Quando sono tornate a casa Silvia (avrà avuto 6 anni) fece le scale di corsa e arrivò da me tutta rossa e col fiatone. “Adesso il papà lo sgridi e lo picchi, perché ha baciato una donna!”, mi disse… Lo ricordo con molta allegria. Adesso, pensa, se lo dico a Silvia lei non lo rammenta più. O forse  è più corretto dire che ha dovuto rimuovere quei ricordi, lei era affezionatissima al padre….

Ora le tue figlie sono grandi: parli mai di quel che successe?

No, non si può continuare a parlarne. Un conto sono i piccoli episodi come quello che ti raccontavo, ma il ricordo è solo loro, personale. Della vicenda no, non ne parliamo. Devono vivere le loro vite, nelle loro famiglie: in questo senso non si tratta di rimozione, capisci? A me a volte capita di parlarne con qualche nuova amica, ma giusto un accenno.

Purtroppo sono arrivato a chiederti “del fatto”. Tu come e quando ne vieni a conoscenza?

Dobbiamo fare un passo indietro, prima di parlare della notte del 15 dicembre. Dobbiamo partire dal 12, dal giorno di Piazza Fontana. Pino viene invitato in questura, non viene arrestato. Addirittura segue l’invito accodandosi all’auto della polizia col suo motorino, senza nessuna coercizione. Nessuno mi telefona per dirmi che Pino è stato chiamato in questura, Io vengo a sapere qualche ora dopo, quando la polizia viene a casa nostra per una perquisizione. In quel momento io non solo non sapevo che mio marito era in questura, ma non ero a conoscenza nemmeno della bomba alla banca dell’agricoltura, semplicemente perché avevo il televisore rotto e non avevo sentito i notiziari; per cui anche la perquisizione mi capita come una cosa strana, scioccante…
Sono passati tanti anni, quindi certi particolari sicuramente mi sfuggono, ma altri li ho ancora vivissimi in mente. Ricordo i poliziotti che rovistavano per casa, probabilmente alla ricerca di qualcosa di compromettente, e sono finiti con lo scartabellare fra le tesi (i ragazzi spesso me ne lasciavano una copia per ricordo, una volta finita). Fra questi lavori ce n’era uno che attirò l’attenzione dei poliziotti. Adesso non saprei dirti con sicurezza di cosa si trattasse: forse era sulla rivoluzione francese, oppure sull’epoca in cui c’era stata una rivolta contro la Stato Pontificio nelle Marche, qualcosa del genere… Sta di fatto che gli agenti all’inizio pensavano di aver trovato chissà quale documento rivoluzionario! Spiegai che era una tesi, che io le battevo a macchina per lavoro, e uno di loro mi chiese “ma lei lavora per hobby o per bisogno?”. Credo d’averlo guardato con ben poco rispetto: a quell’epoca, coi pochi soldi che giravano, uno lavorava proprio per hobby!…
Ecco, ho questo ricordo della perquisizione: io che continuo a brontolare mentre i poliziotti giravano per casa. Poi, ancora più tardi, arrivò la telefonata di Pino: mi disse solo che era in questura, c’era tanta gente e avrebbe tardato. Anche se era un momento drammatico, non fu una telefonata allarmante, ma rassicurante.

Tu riuscisti a vederlo, in quei giorni?

No, però ci riuscì mia suocera il giorno dopo, il 13 o forse il 14. Dopo la perquisizione, o dopo la telefonata di mio marito, l’avevo chiamata, le avevo spiegato la situazione. Tra l’altro proprio il 12 Pino aveva appena ritirato la tredicesima, per cui lei andò di persona in questura a farsela consegnare. Era anche un modo per vederlo ed essere rassicurate.

Licia, scusa la domanda, ma con tutto quello che è successo, negli anni successivi ti è mai venuto di pensare che la sua attività politica era la causa di quanto vi era successo? Hai mai pensato (irrazionalmente, voglio dire) a una sorta di “rimprovero” verso tuo marito?

No. Esiste il libero arbitrio… Capisco quel che vuoi dire, ma direi di no, non ho mai avuto quel pensiero. Vedi, per spiegarti bene questo aspetto devo fare un passo indietro nel tempo. C’è stato un momento, prima della militanza di Pino (prima della “militanza attiva”, intendo, visto che lui comunque era ed è sempre stato anarchico), in cui avevamo le due bambine piccole, io avevo mille lavoretti, le tesi eccetera, e Pino sembrava dibattersi in quella casa che sembrava così stretta. Io allora lo incitavo a trovarsi degli interessi al di fuori della vita familiare. Gli dissi “perché non vai dagli esperantisti, perché non riallacci quei rapporti?”, visto che noi ci eravamo conosciuti nel ’52, proprio a scuola di esperanto, e ricordavamo quell’ambiente come una bella esperienza. Lui accolse il mio consiglio… Solo che, invece di andare dagli amici di esperanto, andò a trovare gli anarchici del circolo. Scelse la sua passione più vera, la politica: come potrei rimproverarlo, anche irrazionalmente? No, non posso parlare di sue colpe, né di miei ripensamenti sulle sue scelte.

La notte fra il 15 e il 16 dicembre, che Pino è precipitato dalla finestra lo vieni a sapere dai giornalisti…

Sì, vengono a bussare da me verso l’una. Io, le bambine e mia suocera eravamo già a letto. Te lo dico perché in seguito ci fu persino chi disse che dormivo con un amante. Non è una cosa poi così strana: se devi infangare una vittima è meglio infangare anche i suoi parenti…
Comunque sono andata ad aprire e ho trovato questi due giornalisti. Sembravano affannati, dopo 4 piani di scale senza ascensore, e soprattutto davano l'impressione di farsi forza l’un altro, cercavano le parole per dirmelo: “sembra che suo marito sia caduto da una finestra”.
Gli chiusi la porta in faccia e mi precipitai a telefonare alla questura. Chiesi di Calabresi e me lo passarono. Dissi che c’erano due giornalisti alla mia porta, gli riferii cosa m’avevano detto, chiesi perché non m’avevano avvertito. “Sa, signora, noi abbiamo molto da fare”, mi rispose… Non so se gli ho detto ancora qualcosa, sicuramente gli ho sbattuto la cornetta in faccia. Dalla questura non seppi nulla: mentre Pino era all’ospedale, invece di chiamarci loro avevano indetto la famosa conferenza stampa…
Mia suocera si vestì e si precipitò all’ospedale, al Fatebenefratelli. Io dovevo aspettare, c’erano le bambine da guardare, non avevo altra scelta. A tanti anni di distanza i ricordi sono confusi, ma rammento bene mia suocera, alla sua età e senza una lira in tasca, precipitarsi in piena notte all’ospedale, dove nessuno le dice nulla, dove non le fanno nemmeno vedere il figlio. Mi telefonò dall’ospedale, dicendomi che c’era un sacco di polizia e non la facevano passare. Poi mi disse “non so cosa sta succedendo, ma temo che…”. Aveva capito che era morto perché aveva visto un inserviente tirare fuori i moduli

La tua reazione quale fu?

Dopo un po’ ero riuscita a far portare via le bambine, che si fecero svegliare e vestire senza dire nulla. Sempre quella notte, o poco più tardi, arrivarono a casa mia Camilla Cederna, Stajano, un dottore dell’università cattolica per cui avevo lavorato (che sulla vicenda in seguito scrisse un lungo articolo sull’Europeo), e qualcun altro ancora.
Ad un certo punto non ce la facevo più a stare in quella stanza, volevo andarmene da sola in camera. Mi venne dietro mia suocera. Mi disse: “Vedrà, domani daranno a lui la colpa di tutto”. “Va bene”, risposi, “ma ci siamo anche noi, con cui dovranno fare i conti”.
Il giorno successivo, in tribunale, ricordo i capannelli di gente… C’era davvero tantissima gente, la strage di piazza Fontana e la morte di Pino avevano destato uno scalpore enorme. C’erano dei giovani avvocati, che chiedevano (loro a me…) cosa si poteva fare. “Denunciare tutti quelli che erano in quella stanza”, rispondevo. E da lì comincia tutta la storia delle varie istruttorie, che è finita come sai…

Licia, tu hai letto il libro di Mario Calabresi (figlio del commissario), “Spingendo la notte più in là”?

No. Non voglio leggerlo, non m’interessa. Non potrei mai riconoscermi in quel testo. A volte penso che c’è stato un momento in cui se avessi incontrato per strada la vedova, con i bambini, forse avremmo potuto parlarci, avere un rapporto. Ma così, con tutto quello che è successo, no. C’è una distinzione netta, fra noi.

Io per ora ne ho letto solo qualche recensione e ho visto l’autore da Ferrara. Ho avuto la netta impressione che Calabresi evitasse di affrontare la storia di Pino, se non di striscio, e questo mi ha dato fastidio. Capisco l’esigenza di difendere la memoria del padre, però ho trovato che con quell’operazione si negassero almeno due fatti: in primo luogo che le due vicende, piaccia o meno, sono strettamente collegate; in secondo luogo che, indipendentemente dalle implicazioni sul fatto in sé, sul commissario gravano comunque responsabilità “sul dopo”, sulle menzogne che raccontarono, il “Pinelli gravemente indiziato”…

Direi non solo sul dopo: ricordiamo che Calabresi era titolare dell’ufficio da cui cadde mio marito. Dunque, indipendentemente dalla sua presenza, la responsabilità, anche diretta, c’era. Poi, come dici tu, viene il resto, le menzogne su Pino gravemente indiziato eccetera…
Tornando sulla presenza o meno di Calabresi nella stanza, non voglio riaprire polemiche, ma mi sembra giusto ricordare che uno degli anarchici fermati, Pasquale Valitutti, sostenne di non aver visto Calabresi uscire dalla sua stanza prima che Pino cadesse, e successivamente confermò sempre la stessa versione: non solo non aveva visto Calabresi uscire dalla stanza, ma affermò pure che (considerata la posizione che occupava nel corridoio) avrebbe senz’altro notato se il commissario fosse uscito. Quella dichiarazione la sostenne di fronte alla magistratura, ma non fu mai chiamato a deporre nuovamente davanti a D’Ambrosio, mi disse, nel corso dell’istruttoria decisiva.

Tornando alle menzogne successive alla morte di Pino, alla sentenza D’Ambrosio almeno una cosa bisogna riconoscerla: esclude che Pino si sia suicidato, quindi conferma che tutti quelli che erano nella stanza e dichiararono il contrario mentirono. I 4 poliziotti e il carabiniere presenti hanno avuto conseguenze?
Che io sappia no, la storia si è chiusa così. Anzi, per quanto ho saputo alcuni, se non tutti, sono stati promossi. Quando succede un fatto del genere, che vede coinvolti elementi delle forze dell’ordine, alla fine oltre a non arrivare alla verità si finisce con le promozioni. Lo stiamo vedendo anche oggi, per i fatti di Genova.

Negli anni successivi, hai mai avuto altre notizie, anche da fonti “strane” (penso a voci, telefonate dei soliti “bene informati”) che ti facessero pensare di poter essere vicina a una nuova svolta?

Una volta mi arrivò una lettera anonima di questo tipo. La consegnai all’avvocato Carlo Smuraglia, ma non ne facemmo nulla, era una cosa totalmente delirante.

Sono passati 38 anni da quei giorni, ma ne sono passati anche 25 da quando hai raccontato la tua storia a Piero Scaramucci in "Una storia quasi soltanto mia". E’ cambiato qualcosa nella tua opinione circa lo svolgimento dei fatti?

Quello che penso sia successo lo raccontai innanzitutto al magistrato e te lo confermo ora. E’ difficile da spiegare, ma si tratta di una convinzione talmente radicata in me che la sento come si trattasse di un avvenimento accaduto con me presente; se ci penso è come se io fossi stata lì, in quella stanza. Quando sono stata interrogata da Bianchi d’Espinosa (procuratore generale a Milano, che poi assegnò il fascicolo a D’Ambrosio) mi chiese proprio quale opinione mi fossi fatta sull’accaduto, e la stessa domanda in seguito me la pose lo stesso D’Ambrosio. Risposi molto semplicemente, come rispondo a te ora: l’hanno picchiato, creduto morto e buttato giù; oppure l’hanno colpito al termine dell’interrogatorio, facendolo poi precipitare incosciente, e questo spiegherebbe anche il suo volo silenzioso, senza neppure un grido, e spiegherebbe pure che dei 5 agenti solo uno (il carabiniere) si precipita giù per accertarsi delle sue condizioni. Di questo racconto sono convinta ancora oggi.
Alla tesi del suicidio, poi, non ho mai creduto. Pino non l’avrebbe mai fatto, era un’eventualità che non ammetteva. Una volta avevamo parlato di una ragazza che conoscevamo, che aveva tentato il suicidio, e lui era stravolto. Non era una scelta che concepiva, amava la vita, non l’avrebbe mai fatto.