sabato 23 novembre 2013

“Una stella incoronata di buio”, di Benedetta Tobagi

A costo di essere banale, comincio con una cosa che sanno (quasi) tutti.
Il 28 maggio 1974, quando esplode la bomba in Piazza della Loggia, Benedetta Tobagi non è ancora nata. Il 28 maggio 1980, quando terroristi della Brigata 28 marzo uccidono suo padre, è una bimba di 3 anni.
Lo sanno (quasi) tutti, dicevo, di questo incrocio di date e destini. Lo ricorda il risvolto di copertina del nuovo, ottimo lavoro di Benedetta (“Una stella incoronata di buio”, Einaudi 2013). Lo ricorda lei stessa nelle primissime pagine del libro.

Ecco, non so se io al suo posto vorrei sottolinearlo. E’ naturale che lei lo faccia, certo, ma farlo può indurre a una considerazione ingiusta, o almeno parziale e inesatta, proprio verso l’autrice. Si potrebbe infatti pensare che solo un “incrocio di date e destini” l’abbia portata a sentirsi vicina ai familiari delle vittime della strage di Brescia. Invece non è così. Non è – o non è “solo” – la crudele casualità di una data sul calendario a tenere la figlia di Walter Tobagi accanto alle vittime di Piazza Loggia. Anzi, diciamola tutta: Benedetta è da tempo una delle penne più acute che si interessano di anni ‘70, stragismo nero e terrorismo in genere. Lo dimostrano la sua attività di giornalista e scrittrice, la partecipazione attiva ai centri di documentazione e memoria sugli “anni di piombo”… tante cose, insomma.

Ma quello snodo cruciale, quel 28 maggio che a sei anni di distanza ferisce prima Brescia e poi una bimba di tre anni, resta nel cuore. Era dunque naturale che Benedetta Tobagi, dopo aver ricordato il padre nel precedente “Come mi batte forte il tuo cuore” (Einaudi, 2009), scrivesse oggi la storia della strage “indiscutibilmente a più alto tasso di politicità” (così la definì il 23 maggio 1993 l’allora Giudice Istruttore Gianpaolo Zorzi).

Del primo libro di Benedetta ho scritto tempo fa. Di lei dissi “…una scrittrice molto abile, che riesce a mixare nel suo libro partecipazione umana e lucidità di analisi”. Lo ripeto oggi, con sempre maggiore convinzione. E aggiungo che di “Una stella incoronata di buio” le pagine più interessanti sono quelle sulle vittime, più della comunque accuratissima ricostruzione dei fatti (un po' meno riuscite, invece, le pagine riflessive: intense ma frammentarie, spezzano la narrazione e a tratti sono segnate da un pizzico di autoreferenzialità).
Del nuovo lavoro di Benedetta questa attenzione al lato umano delle vittime è una particolarità solo apparentemente secondaria. Di testi “sui fatti” (su Piazza della Loggia come su Piazza Fontana, tanto per dire) ce ne sono parecchi; buoni, meno buoni, pessimi… ma ce n’è. E non è vero, come dicono alcuni, che è impossibile procurarsi materiali: chiunque unisca alla voglia di informarsi una buona dose di pazienza ne può scovare un gran numero; cartacei, video, on line… Ma le vittime, la loro personalità, la loro vita, si perdono. Numeri da citare per macabre statistiche; anonime citazioni (“ricordiamo le vittime della strage di…”); alla meglio, nomi su targhe in marmo. Quasi che la loro esistenza sia cristallizzata nell’attimo tragico di un’esplosione che li ha consegnati alla storia.
Benedetta lo capisce e con pazienza (e, soprattutto, con tatto e sensibilità) fa un lavoro diverso, regalandoci quadri toccanti (verrebbe da dire “vitali”, sfidando il paradosso) delle vittime bresciane.

Ora, un aneddoto. Il 14 aprile 2012 la Corte d’appello di Brescia ha confermato le assoluzioni stabilite in primo grado (16 novembre 2010) nell’ultimo processo su Piazza Loggia (per la cronaca: la Cassazione si pronuncerà a febbraio 2014).
Quel giorno in tribunale c’era più gente del solito. All’ingresso della corte è calato il silenzio. Alle parole “…conferma la sentenza del 16 novembre 2010” si è sollevato un brusio sommesso. Poi, occhi lucidi, braccia allargate: compostezza e scoramento, non rabbia. Non sul momento, almeno.
Io e Benedetta eravamo fra i presenti. Più gente del solito, dicevo, ma una platea anagraficamente omogenea. A occhio e croce eravamo i più giovani (mi scuserà Benedetta se io, con 12 primavere in più sul groppone, mi iscrivo nella sua fascia d’età…). Anni fa saremmo stati molti di più, magari saremmo andati proprio in piazza della Loggia a far sentire la nostra indignazione. E’ difficile da spiegare, ma questo mi è sembrato un triste segno dei tempi…

Perché questo aneddoto? Perché un anno e mezzo dopo leggo sul suo libro (pagina 11): “L’Italia delle stragi mi fa pensare a una famiglia borghese che nasconde segreti innominabili come un abuso, un incesto o altri crimini vergognosi. Se anche il segreto viene alla luce e il velo d’ipocrisia si squarcia per un momento, ben presto lo schermo si ricompatta … Bisogna salvare la famiglia, le apparenze, il buon nome delle istituzioni, la ragion di Stato”.
La frase dice tutto. Della strage, certo. Soprattutto del cono d’ombra (“l’indicibile”) che grava ancora oggi su quei fatti, a quarant’anni di distanza.
Perché, ammettiamolo, che la verità potesse essere indicibile all’epoca posso capirlo (non giustificarlo…): forse davvero lo Stato non avrebbe retto quel peso. Che lo stesso peso gravi oggi è sconcertante. E’ il segno che gli apparati del potere temono oggi le verità che temevano ieri. Forse, il segno di connessioni e convenienze indicibili (appunto) allora; sottaciute in quanto scomode ora. Proprio “come un abuso, un incesto o altri crimini vergognosi”: rimuoverle o seppellirle nel silenzio è più efficace che affrontarle, come dovrebbero fare istituzioni “sane”, che non temono il proprio passato.
La compianta Francesca Dendena, storica presidente dell’associazione familiari delle vittime di Piazza Fontana, scomparsa nell’ottobre 2010, disse: “… proprio la mancanza di chiarezza sulla stagione delle stragi fa pensare che le protezioni e le connivenze verso i terroristi, insieme alla cappa di mistero che ancora grava su molti episodi, siano dovute al fatto che certe forze sono ancora attive ed influenti in Italia” (intervista a Franca realizzata da me in appendice a “Piazza Fontana”, Barilli e Fenoglio, BeccoGiallo 2009). Tutte queste considerazioni mi portano a dire che la mancanza di consapevolezza dei giovani rispetto agli anni ’70 (lo so, l’ho scritto un sacco di volte…) mi sembra solo in parte dovuta a sciatteria; in gran parte è funzionale a una narrazione della storia a sua volta utile al mantenimento del presente… (in quarant’anni siamo riusciti ad accertare che a mettere la bomba a piazza Fontana sono stati i fascisti e non le Brigate rosse. Bene, ma a cosa serve se nessuno lo spiega agli studenti, che per la maggior parte sono convinti del contrario, secondo indagini statistiche anche recenti?).

Dunque Benedetta è o non è una giovane autrice? Forse è una giovane/non-giovane. “L’incrocio di date e destini” la tiene ancorata agli anni ’70 (lei stessa scrive: “Il tempo è diverso, per i sopravvissuti. Il presente è sempre un dopo. … Il sopravvissuto abita il tempo negato a un altro essere umano”. Persino il suo stile non è quello scarno e asciutto in uso oggi: è ricco, raffinato, per nulla “essenziale”, lirico. Evidentemente ama la poesia (il titolo del precedente libro riprendeva una lirica di Wislava Szymborska, quello attuale un verso di Pierluigi Cappello): un’altra caratteristica rara, di questi tempi…

Sarei curioso di vederla alle prese con qualcosa di “pura narrativa”. Sbaglierò, ma sarebbe assai brava. Nel frattempo, si dibatte in un tempo che non è il suo. Ma ce lo racconta come sanno fare in pochi. E di questo dobbiamo esserle grati.

Francesco “baro” Barilli

mercoledì 13 novembre 2013

“Lottavo Romanzo”, di Marco Sommariva. Una non recensione

Ci sono pezzi su cui ragiono un sacco. Scrivo a biro su un quadernone (sono all’antica, lo so: mai scritto nulla direttamente al PC, devo sentire sotto lo spessore della carta – possibilmente “tanta” – e avere una biro dal tratto morbido in mano); correggo ancora a biro e riscrivo “in bella”; poi passo alla videoscrittura; stampo, correggo ancora… e così via, l’avrete capito, fino al definitivo.
Altri pezzi no. Sono rari, questi ultimi. E il commento (recensione è parola troppo pomposa e inadatta) al nuovo libro del mio amico Marco Sommariva (“Lottavo Romanzo”, Sicilia punto L edizioni, 2013) ne è un esempio. Perché è uno di quei libri che ti fa vibrare il cuore, ed è bene scriverne mentre lo senti ancora vibrare. Pensare che, riflettendoci sopra, avresti potuto scrivere di più e meglio non ha senso e non è importante: devi farlo subito e basta.

Non conosco di persona Marco. Ci siamo scritti, abbiamo collaborato ad alcune iniziative editoriali “militanti”, ma la sua faccia mi è sconosciuta. E questo lavoro non sarà autobiografico, nel senso letterale e rigoroso, ma mi sa che poco ci manca, vista l’età della voce narrante e i luoghi di ambientazione (sui 50 e Genova e dintorni). Quindi mi sa che ora lo conosco sul serio.

(una parentesi – l’ho detto: oggi scrivo di getto e in modo disordinato. Anche alcune fra le cose più minimaliste – e solo in apparenza meno importanti – mi fanno amare questo romanzo. Una fra tutte, l’amore per i fumetti del protagonista bambino, dagli eroi Marvel a quelli “sporcaccioni” trovati dal barbiere. Se sia un segno di “comunanza generazionale” o di “comune sentire” – o entrambi – non lo so. Ma volevo dirglielo. Ah, lui comunque scrive di non averci più trovato – nei fumetti, dico – “la magia”; io da adulto mi sono trovato a scriverne. Scherzi del destino… Poi ci sono l’insana attrazione per Sabina Ciuffini, il desiderio infantile di fare da grande un lavoro “strano” – per me: “l’ingegnere con la pistola”, e non chiedetemi di più, vi prego… - e gli Inti Illimani che io vidi a Cremona, avrò avuto 8/10 anni… Ora basta, chiusa parentesi)

Lottavo Romanzo è un libro di ricordi, di nostalgia sofferta ma dolce, di rabbia per il presente. Bello persino nel senso di incompiuto che lascia alla fine (perché, sì, il romanzo non segue l’andamento classico; non ha un intreccio in cui una trama si dipana fino al proprio climax e si scioglie in un finale), perché quel senso d’incompiuto, in fondo (e per me), è anche il senso (“un senso”) del racconto stesso di una vita. Della vita del protagonista (Marco?) che ha ancora molte cose da dire, da dare, da scrivere… e per cui soffrire (“soffro” è il verbo che più spesso ricorre nel libro. Ma, almeno mi sembra, è segno di una sofferenza non sconfitta ma bensì inquieta e vitale, di una fiammella che tiene vivi oggi gli entusiasmi di ieri).

E’ un libro duro, quello di Marco. Anni ’70, tensioni sociali, la droga, la miseria, la lotta armata… Un testo libertario e antifascista. E scritto dannatamente bene.
Anzi, diciamola tutta. Io scrivo bene, lo so. Mai avuto dubbi su questo. E m’incazzo quando qualcuno scrive meglio di me. E Marco stavolta l’ha fatto (“in fondo, ci siamo sempre preoccupati di estetica”, scrive il malandrino…).

Un libro dunque che dovrebbe piacere a tutti quelli che seguono questo blog: vi conosco… Aggiungerò solo che il volume è impreziosito da altri due amici: una prefazione di Haidi Giuliani e un’appendice di Alessio Lega.

Come? Non ho detto abbastanza di “cosa c’è dentro”? Ma tante cose, dicevo. Minimalismo esistenziale, formazione di un bimbo divenuto giovane uomo e poi adulto, grandi passioni, lotte e delusioni e speranze di più generazioni, ribellione al sistema…
Fatevi un piacere e leggetelo. Ma non ditemi poi che scrive meglio di me. Perché poi ci soffro io…

Francesco “baro” Barilli