giovedì 22 agosto 2013

Born into this

Non credo d’aver mai raccontato come e perché Charles Bukowski sia importante per me (un’importanza che prescinde l’effettivo valore artistico dell’autore, su cui non voglio addentrarmi). Non l’ho fatto in passato e non lo farò ora. Basti dire che ci sono episodi e artisti fondamentali, nella vita di ognuno e per la formazione di ogni scrittore. Per quanto mi riguarda, e l’ho già detto, Genova 2001 e il caso Pinelli sono stati quegli episodi. Dal punto di vista artistico, De Andrè e Bukowski sono stati quegli autori: confesso che in molti miei racconti giovanili scimmiottavo “il grande Hank” (per fortuna poi ho smesso…).
Di Bukowski ho letto pressochè tutto ciò che è stato pubblicato in Italia, a livello di prosa. Alcune cose le reputo tuttora notevoli, altre no. Ho sempre trascurato le poesie. Un po’ perché in generale non m’attira la poesia, un po’ per la mia scarsa competenza nell’inglese: ritengo che la prosa, se ben tradotta, sia fruibile indipendentemente dalla “matrice” originale, mentre la poesia faticherà sempre a essere resa efficacemente al di fuori della lingua in cui è stata scritta. La traduzione più attenta potrà riprodurla egregiamente, o persino migliorarla in alcuni casi, ma produrrà sempre “qualcosa di diverso”, per musicalità e ritmo, dall’originale.

Ma alcuni giorni fa mi sono imbattuto in una lirica di Bukowski, “Born into this” (che dà anche il titolo a un interessante documentario sulla vita dello scrittore). Mi ha colpito molto e ne riporto alcuni passaggi (tagliati):

“Nati così in mezzo a tutto questo
tra facce di gesso che ghignano
e la signora morte che se la ride

mentre gli orizzonti politici si dissolvono
mentre il ragazzo della spesa del supermercato ha una laurea
mentre i pesci sporchi di petrolio sputano la loro preda oleosa
e il sole è mascherato

siamo nati così
in mezzo a tutto questo
tra queste guerre attentamente matte

in mezzo a bar dove le persone non si parlano più

tra ospedali così costosi che conviene lasciarsi morire

in un Paese dove le galere sono piene

in un posto dove le masse trasformano i cretini in eroi di successo

siamo nati in un governo in debito di 60 anni
che presto non potrà nemmeno pagare gli interessi su quel debito
e le banche bruceranno
il denaro sarà inutile
ammazzarsi per strada in pieno giorno non sarà più un crimine
resteranno solo pistole e folle di sbandati
la terra sarà inutile
il cibo diventerà un rendimento decrescente
l’energia nucleare finirà in mano alle masse
il pianeta sarà scosso da un’esplosione dopo l’altra

il sole sarà invisibile e sarà la notte eterna
gli alberi moriranno
e tutta la vegetazione morirà
uomini radioattivi si nutriranno della carne di uomini radioattivi
il mare sarà avvelenato
laghi e fiumi spariranno
la pioggia sarà il nuovo oro
la puzza delle carcasse di uomini e animali si propagherà nel vento oscuro
gli ultimi pochi superstiti saranno oppressi da malattie nuove e orrende
e le piattaforme spaziali saranno distrutte dalla collisione
il progressivo esaurimento di provviste
l’effetto naturale della decadenza generale
e il più bel silenzio mai ascoltato
nascerà da tutto questo
il sole nascosto
attenderà il capitolo successivo”


Alcuni versi, specie i conclusivi, li trovo bellissimi. Ma, soprattutto, la poesia mi sembra terribilmente attuale.
L’incubo nucleare è forse l’unico elemento che oggi suona anacronistico (ma non privo di fondamento, se pensiamo che uno scenario apocalittico non deve necessariamente essere frutto del post-atomico: la distruzione di risorse e il disastro ecologico non sono legati solo a quello, è ormai chiaro). E in ogni caso questo passaggio merita altre riflessioni. Perché ci ricorda come e quanto, in anni non così lontani, il mondo fosse pervaso da quel terrore. Si potrebbero citare molte testimonianze, nei più svariati campi artistici, mosse dalla stessa paura: la mia passione per il fumetto mi fa citare solo “Watchmen” di Alan Moore e Dave Gibbons. Inoltre, i versi “il più bel silenzio mai ascoltato/nascerà da tutto questo/il sole nascosto/attenderà il capitolo successivo” mi fanno venire in mente un analogo scenario apocalittico:

“Vedremo soltanto una sfera di fuoco
più grande del sole, più vasta del mondo;
nemmeno un grido risuonerà
e solo il silenzio come un sudario si stenderà
fra il cielo e la terra
per mille secoli almeno
ma noi non ci saremo”


(“Noi non ci saremo”, di Francesco Guccini, cantata anche dai Nomadi. Il tema del mondo distrutto da una guerra nucleare lo si può trovare anche ne “L'atomica cinese”, sempre di Guccini).

Ciò che più mi ha colpito, dicevo, è l’attualità della critica di Bukowski alla società (americana e oggi, per estensione, globalizzata e capitalista) e al suo inevitabile precipitare verso il baratro. Se pensiamo che la poesia è dei primi anni ’70 le parole dell’autore appaiono davvero profetiche. Se pensiamo che si tratta di uno scrittore americano (seppure di origini tedesche), saldamente ancorato per tutta la sua vita e per il proprio sile narrativo al proprio “essere americano”, la traslazione della poesia all’attuale realtà occidentale è ancora più agghiacciante.
Ma ciò che più mi fa riflettere è la triste fotografia di un paese in cui è fin troppo facile riconoscere innanzitutto l’Italia e, a seguire, il mondo occidentale, “dove le galere sono piene, dove le masse trasformano i cretini in eroi di successo, con un governo che presto non potrà nemmeno pagare gli interessi sul debito, e dove le banche bruceranno…”. La fotografia proviene da uno scrittore non incasellabile politicamente (se non per una generica e neppure del tutto calzante inclinazione verso l’anarchia), a cui ora mi sento ancora più legato.

Francesco “baro” Barilli

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