mercoledì 18 dicembre 2013

Le strane priorità di Regione Lombardia nel gestire soldi pubblici…

Gentile direttore,
per principio, etico prima che professionale, ho sempre evitato di parlare di cose riguardanti il Comune dove lavoro (Pizzighettone). Mi contraddico oggi; un po’ perché i fatti che esporrò non sono problemi su cui l’amministrazione comunale possa intervenire direttamente o possa risolvere, un po’ perché tutti dovrebbero essere a conoscenza di quanto racconterò: alcuni in quanto toccati personalmente, gli altri perché ne potrebbero essere toccati un giorno.
I cittadini che chiedono contributi per l’abbattimento delle barriere architettoniche nelle proprie abitazioni seguono una procedura che a Pizzighettone curo personalmente. In estrema sintesi: domande presentate entro il 28 febbraio; inoltrate telematicamente alla regione entro marzo; in base al fabbisogno complessivo, Milano eroga quanto dovuto a ogni comune, che lo ripartisce ai singoli. Il tutto normalmente si chiude entro un anno dalla domanda: tempi lunghi (ma ragionevoli trattandosi di una procedura complessa), che ultimamente si sono però protratti senza più vedere le somme erogate…
Una nota regionale di fine giugno spiega l’intoppo. In base alle risorse disponibili si decreterà la liquidazione di parte del fabbisogno 2012. Le somme non sono sufficienti per circa un migliaio di cittadini, che almeno per il momento non riceveranno il contributo. La nota chiarisce che le domande insoddisfatte, così come tutte quelle presentate per il 2013 e le successive, resteranno valide ma, cito testualmente, “non è possibile effettuare previsioni in merito alla loro effettiva liquidazione, in quanto al momento non sono previste assegnazioni di bilancio per la loro copertura”.
La nota invitava a dare informazioni di quanto sopra “ai cittadini direttamente interessati al fine di non ingenerare aspettative”, e così correttamente ha fatto il Comune. Ma, gentile direttore, scrivendole mi attengo a tali disposizioni e non ne fornisco un’interpretazione estensiva: tutti siamo “direttamente interessati”; anche chi un giorno potrebbe diventarlo, perché colpito da una patologia o per l’avanzare dell’età.
Un’altra notizia, stavolta estranea al mio lavoro, merita spazio e considerazioni abbinate a quelle fin qui svolte. La manovra finanziaria proposta al Consiglio Regionale si occupa del cosiddetto “buono scuola”. Quello riservato a studenti delle scuole private o “paritarie” dovrebbe passare (condizionale d’obbligo: in questi giorni la manovra dovrebbe essere ratificata, ma non ho notizie definitive in merito) da 33 a 30 milioni; quello destinato alle famiglie di scuole pubbliche scende a 5 milioni. Molti studenti milanesi, purtroppo soli nel denunciare questa scelta, hanno manifestato ieri, col corollario di alcuni scontri con le forze dell’ordine che – sempre purtroppo – sono gli unici fatti che hanno trovato spazio sui giornali. Nel frattempo, sempre più scuole pubbliche chiedono alle famiglie un sostegno economico: tristi segni dei tempi…
Qualcuno potrà obbiettare che parlando di barriere architettoniche e di contributi scolastici ho “mischiato pere e pomi”. Sbagliato: in entrambi i casi parlo di soldi pubblici, versati dai contribuenti di ogni appartenenza politica, e di come vengono spesi. Sapere come vengono spesi è un diritto per i cittadini. Spiegare le scelte adottate sul come utilizzarli (cosa tagliare, cosa mantenere…) è un dovere per i nostri rappresentanti democraticamente eletti.

Francesco Barilli

(pubblicato oggi sul quotidiano Lodigiano "Il Cittadino", col titolo "Contributi e barriere, non mischio pere e pomi")

giovedì 12 dicembre 2013

Fumetto o graphic novel?

Se fate un giro sul web troverete diversi commenti sull’intervista di Concita De Gregorio a Gipi sul suo ultimo libro (UnaStoria, Cononino – la citazione vale anche come consiglio di lettura: è un lavoro straordinario e toccante). Potete facilmente trovare il video dell’intera trasmissione; oppure potete leggere (qui) lo stralcio che ora m’interessa.

Credo che Gipi con semplicità e schiettezza abbia risposto a De Gegorio. Credo pure sia stato corretto nell’evitare accenti polemici: la giornalista, con la sua uscita sul fumetto “un po’ un genere minore” non mostrava scarso rispetto, ma solo l’oggettiva difficoltà di chi non è “abituato” a queste letture.

La circostanza comunque m’ha fatto sorridere. Nel mio piccolo ho dovuto affrontare spesso domande/dubbi/pregiudizi simili a quelli a cui ha risposto Gianni. “Come mai hai scelto proprio il fumetto per raccontare [inserire qui: Piazza Fontana, Piazza della Loggia, i fatti di Genova…]?”; oppure: “la scelta del fumetto per raccontare [inserire…] è dovuta alla volontà di avvicinare a questi temi giovani lettori che, altrimenti, sarebbero restii ad informarsi sull’argomento?”.

Anch’io ho sempre risposto cortesemente. Almeno spero: a volte posso essere sembrato “seccato” (sai com’è, alla decima volta che te lo domandano…), ma se sono stato scortese me ne dispiaccio.
Però spesso mi sono domandato se De Andrè abbia mai dovuto replicare a chi gli domandava “scegliere di parlare di [inserire una delle tante tematiche che il grande Faber ha affrontato nei suoi brani] attraverso una canzone è una tua scelta per rendere pù semplice ed accessibile l’argomento?”. Oppure se Picasso abbia dovuto spiegare il suo Guernica (“com’è possibile descrivere l’orrore di un bombardamento con olio su tela, senza neanche una parola?”).

Credo sia sbagliato, in fondo, parlare di “arti”, al plurale. Esiste l’arte, con molteplici modi di declinarla, di esprimerla (di esprimersi). In un’intervista a Carlo Gubitosa dissi “ogni messaggio dipende dal mezzo e va rapportato alle sue potenzialità, ogni forma espressiva è degna, se utilizzata bene, di essere veicolo per qualsiasi contenuto”.

Peccato che il fumetto risenta ancora (almeno da noi, in Italia) di antichi pregiudizi. Proprio l’intervista De Gregorio/Gipi fa pensare che forse qualcosa si sta muovendo, in questo senso.

Francesco “baro” Barilli

sabato 23 novembre 2013

“Una stella incoronata di buio”, di Benedetta Tobagi

A costo di essere banale, comincio con una cosa che sanno (quasi) tutti.
Il 28 maggio 1974, quando esplode la bomba in Piazza della Loggia, Benedetta Tobagi non è ancora nata. Il 28 maggio 1980, quando terroristi della Brigata 28 marzo uccidono suo padre, è una bimba di 3 anni.
Lo sanno (quasi) tutti, dicevo, di questo incrocio di date e destini. Lo ricorda il risvolto di copertina del nuovo, ottimo lavoro di Benedetta (“Una stella incoronata di buio”, Einaudi 2013). Lo ricorda lei stessa nelle primissime pagine del libro.

Ecco, non so se io al suo posto vorrei sottolinearlo. E’ naturale che lei lo faccia, certo, ma farlo può indurre a una considerazione ingiusta, o almeno parziale e inesatta, proprio verso l’autrice. Si potrebbe infatti pensare che solo un “incrocio di date e destini” l’abbia portata a sentirsi vicina ai familiari delle vittime della strage di Brescia. Invece non è così. Non è – o non è “solo” – la crudele casualità di una data sul calendario a tenere la figlia di Walter Tobagi accanto alle vittime di Piazza Loggia. Anzi, diciamola tutta: Benedetta è da tempo una delle penne più acute che si interessano di anni ‘70, stragismo nero e terrorismo in genere. Lo dimostrano la sua attività di giornalista e scrittrice, la partecipazione attiva ai centri di documentazione e memoria sugli “anni di piombo”… tante cose, insomma.

Ma quello snodo cruciale, quel 28 maggio che a sei anni di distanza ferisce prima Brescia e poi una bimba di tre anni, resta nel cuore. Era dunque naturale che Benedetta Tobagi, dopo aver ricordato il padre nel precedente “Come mi batte forte il tuo cuore” (Einaudi, 2009), scrivesse oggi la storia della strage “indiscutibilmente a più alto tasso di politicità” (così la definì il 23 maggio 1993 l’allora Giudice Istruttore Gianpaolo Zorzi).

Del primo libro di Benedetta ho scritto tempo fa. Di lei dissi “…una scrittrice molto abile, che riesce a mixare nel suo libro partecipazione umana e lucidità di analisi”. Lo ripeto oggi, con sempre maggiore convinzione. E aggiungo che di “Una stella incoronata di buio” le pagine più interessanti sono quelle sulle vittime, più della comunque accuratissima ricostruzione dei fatti (un po' meno riuscite, invece, le pagine riflessive: intense ma frammentarie, spezzano la narrazione e a tratti sono segnate da un pizzico di autoreferenzialità).
Del nuovo lavoro di Benedetta questa attenzione al lato umano delle vittime è una particolarità solo apparentemente secondaria. Di testi “sui fatti” (su Piazza della Loggia come su Piazza Fontana, tanto per dire) ce ne sono parecchi; buoni, meno buoni, pessimi… ma ce n’è. E non è vero, come dicono alcuni, che è impossibile procurarsi materiali: chiunque unisca alla voglia di informarsi una buona dose di pazienza ne può scovare un gran numero; cartacei, video, on line… Ma le vittime, la loro personalità, la loro vita, si perdono. Numeri da citare per macabre statistiche; anonime citazioni (“ricordiamo le vittime della strage di…”); alla meglio, nomi su targhe in marmo. Quasi che la loro esistenza sia cristallizzata nell’attimo tragico di un’esplosione che li ha consegnati alla storia.
Benedetta lo capisce e con pazienza (e, soprattutto, con tatto e sensibilità) fa un lavoro diverso, regalandoci quadri toccanti (verrebbe da dire “vitali”, sfidando il paradosso) delle vittime bresciane.

Ora, un aneddoto. Il 14 aprile 2012 la Corte d’appello di Brescia ha confermato le assoluzioni stabilite in primo grado (16 novembre 2010) nell’ultimo processo su Piazza Loggia (per la cronaca: la Cassazione si pronuncerà a febbraio 2014).
Quel giorno in tribunale c’era più gente del solito. All’ingresso della corte è calato il silenzio. Alle parole “…conferma la sentenza del 16 novembre 2010” si è sollevato un brusio sommesso. Poi, occhi lucidi, braccia allargate: compostezza e scoramento, non rabbia. Non sul momento, almeno.
Io e Benedetta eravamo fra i presenti. Più gente del solito, dicevo, ma una platea anagraficamente omogenea. A occhio e croce eravamo i più giovani (mi scuserà Benedetta se io, con 12 primavere in più sul groppone, mi iscrivo nella sua fascia d’età…). Anni fa saremmo stati molti di più, magari saremmo andati proprio in piazza della Loggia a far sentire la nostra indignazione. E’ difficile da spiegare, ma questo mi è sembrato un triste segno dei tempi…

Perché questo aneddoto? Perché un anno e mezzo dopo leggo sul suo libro (pagina 11): “L’Italia delle stragi mi fa pensare a una famiglia borghese che nasconde segreti innominabili come un abuso, un incesto o altri crimini vergognosi. Se anche il segreto viene alla luce e il velo d’ipocrisia si squarcia per un momento, ben presto lo schermo si ricompatta … Bisogna salvare la famiglia, le apparenze, il buon nome delle istituzioni, la ragion di Stato”.
La frase dice tutto. Della strage, certo. Soprattutto del cono d’ombra (“l’indicibile”) che grava ancora oggi su quei fatti, a quarant’anni di distanza.
Perché, ammettiamolo, che la verità potesse essere indicibile all’epoca posso capirlo (non giustificarlo…): forse davvero lo Stato non avrebbe retto quel peso. Che lo stesso peso gravi oggi è sconcertante. E’ il segno che gli apparati del potere temono oggi le verità che temevano ieri. Forse, il segno di connessioni e convenienze indicibili (appunto) allora; sottaciute in quanto scomode ora. Proprio “come un abuso, un incesto o altri crimini vergognosi”: rimuoverle o seppellirle nel silenzio è più efficace che affrontarle, come dovrebbero fare istituzioni “sane”, che non temono il proprio passato.
La compianta Francesca Dendena, storica presidente dell’associazione familiari delle vittime di Piazza Fontana, scomparsa nell’ottobre 2010, disse: “… proprio la mancanza di chiarezza sulla stagione delle stragi fa pensare che le protezioni e le connivenze verso i terroristi, insieme alla cappa di mistero che ancora grava su molti episodi, siano dovute al fatto che certe forze sono ancora attive ed influenti in Italia” (intervista a Franca realizzata da me in appendice a “Piazza Fontana”, Barilli e Fenoglio, BeccoGiallo 2009). Tutte queste considerazioni mi portano a dire che la mancanza di consapevolezza dei giovani rispetto agli anni ’70 (lo so, l’ho scritto un sacco di volte…) mi sembra solo in parte dovuta a sciatteria; in gran parte è funzionale a una narrazione della storia a sua volta utile al mantenimento del presente… (in quarant’anni siamo riusciti ad accertare che a mettere la bomba a piazza Fontana sono stati i fascisti e non le Brigate rosse. Bene, ma a cosa serve se nessuno lo spiega agli studenti, che per la maggior parte sono convinti del contrario, secondo indagini statistiche anche recenti?).

Dunque Benedetta è o non è una giovane autrice? Forse è una giovane/non-giovane. “L’incrocio di date e destini” la tiene ancorata agli anni ’70 (lei stessa scrive: “Il tempo è diverso, per i sopravvissuti. Il presente è sempre un dopo. … Il sopravvissuto abita il tempo negato a un altro essere umano”. Persino il suo stile non è quello scarno e asciutto in uso oggi: è ricco, raffinato, per nulla “essenziale”, lirico. Evidentemente ama la poesia (il titolo del precedente libro riprendeva una lirica di Wislava Szymborska, quello attuale un verso di Pierluigi Cappello): un’altra caratteristica rara, di questi tempi…

Sarei curioso di vederla alle prese con qualcosa di “pura narrativa”. Sbaglierò, ma sarebbe assai brava. Nel frattempo, si dibatte in un tempo che non è il suo. Ma ce lo racconta come sanno fare in pochi. E di questo dobbiamo esserle grati.

Francesco “baro” Barilli

mercoledì 13 novembre 2013

“Lottavo Romanzo”, di Marco Sommariva. Una non recensione

Ci sono pezzi su cui ragiono un sacco. Scrivo a biro su un quadernone (sono all’antica, lo so: mai scritto nulla direttamente al PC, devo sentire sotto lo spessore della carta – possibilmente “tanta” – e avere una biro dal tratto morbido in mano); correggo ancora a biro e riscrivo “in bella”; poi passo alla videoscrittura; stampo, correggo ancora… e così via, l’avrete capito, fino al definitivo.
Altri pezzi no. Sono rari, questi ultimi. E il commento (recensione è parola troppo pomposa e inadatta) al nuovo libro del mio amico Marco Sommariva (“Lottavo Romanzo”, Sicilia punto L edizioni, 2013) ne è un esempio. Perché è uno di quei libri che ti fa vibrare il cuore, ed è bene scriverne mentre lo senti ancora vibrare. Pensare che, riflettendoci sopra, avresti potuto scrivere di più e meglio non ha senso e non è importante: devi farlo subito e basta.

Non conosco di persona Marco. Ci siamo scritti, abbiamo collaborato ad alcune iniziative editoriali “militanti”, ma la sua faccia mi è sconosciuta. E questo lavoro non sarà autobiografico, nel senso letterale e rigoroso, ma mi sa che poco ci manca, vista l’età della voce narrante e i luoghi di ambientazione (sui 50 e Genova e dintorni). Quindi mi sa che ora lo conosco sul serio.

(una parentesi – l’ho detto: oggi scrivo di getto e in modo disordinato. Anche alcune fra le cose più minimaliste – e solo in apparenza meno importanti – mi fanno amare questo romanzo. Una fra tutte, l’amore per i fumetti del protagonista bambino, dagli eroi Marvel a quelli “sporcaccioni” trovati dal barbiere. Se sia un segno di “comunanza generazionale” o di “comune sentire” – o entrambi – non lo so. Ma volevo dirglielo. Ah, lui comunque scrive di non averci più trovato – nei fumetti, dico – “la magia”; io da adulto mi sono trovato a scriverne. Scherzi del destino… Poi ci sono l’insana attrazione per Sabina Ciuffini, il desiderio infantile di fare da grande un lavoro “strano” – per me: “l’ingegnere con la pistola”, e non chiedetemi di più, vi prego… - e gli Inti Illimani che io vidi a Cremona, avrò avuto 8/10 anni… Ora basta, chiusa parentesi)

Lottavo Romanzo è un libro di ricordi, di nostalgia sofferta ma dolce, di rabbia per il presente. Bello persino nel senso di incompiuto che lascia alla fine (perché, sì, il romanzo non segue l’andamento classico; non ha un intreccio in cui una trama si dipana fino al proprio climax e si scioglie in un finale), perché quel senso d’incompiuto, in fondo (e per me), è anche il senso (“un senso”) del racconto stesso di una vita. Della vita del protagonista (Marco?) che ha ancora molte cose da dire, da dare, da scrivere… e per cui soffrire (“soffro” è il verbo che più spesso ricorre nel libro. Ma, almeno mi sembra, è segno di una sofferenza non sconfitta ma bensì inquieta e vitale, di una fiammella che tiene vivi oggi gli entusiasmi di ieri).

E’ un libro duro, quello di Marco. Anni ’70, tensioni sociali, la droga, la miseria, la lotta armata… Un testo libertario e antifascista. E scritto dannatamente bene.
Anzi, diciamola tutta. Io scrivo bene, lo so. Mai avuto dubbi su questo. E m’incazzo quando qualcuno scrive meglio di me. E Marco stavolta l’ha fatto (“in fondo, ci siamo sempre preoccupati di estetica”, scrive il malandrino…).

Un libro dunque che dovrebbe piacere a tutti quelli che seguono questo blog: vi conosco… Aggiungerò solo che il volume è impreziosito da altri due amici: una prefazione di Haidi Giuliani e un’appendice di Alessio Lega.

Come? Non ho detto abbastanza di “cosa c’è dentro”? Ma tante cose, dicevo. Minimalismo esistenziale, formazione di un bimbo divenuto giovane uomo e poi adulto, grandi passioni, lotte e delusioni e speranze di più generazioni, ribellione al sistema…
Fatevi un piacere e leggetelo. Ma non ditemi poi che scrive meglio di me. Perché poi ci soffro io…

Francesco “baro” Barilli

sabato 5 ottobre 2013

Fumetto: appunti sparsi, fra Lucca e Komikazen

Devo avere ancora da qualche parte una foto della mia prima Lucca. Non pensate a chissà cosa: la foto mi ritrae seduto, mi sembra sul cordolo di un marciapiede; in mano ho un vecchio numero dei Fantastici Quattro. A memoria sarà stato il ’92 o forse il ’93, posso sbagliarmi; me la scattò mia moglie. Da poco tempo “la malattia” mi aveva ripreso, dopo averla contratta una prima volta in gioventù. Giravo per i mercatini dell’antiquariato alla ricerca di vecchi TNT e albi della Marvel/Corno, incautamente gettati via verso i 17/18 anni. Insomma, scoprii Lucca per caso: ero in vacanza e “inciampai” nella manifestazione; all’epoca non mi sfiorava l’idea che un giorno ci sarei tornato da autore.
Più di vent’anni dopo, ci sono già tornato in diverse occasioni; raramente da autore, spesso come semplice appassionato. Quel che è cambiato, nel mio approccio, è il numero delle persone dell’ambiente che oggi conosco e ho l’occasione di incontrare lì.

L’ho vista cambiare, Lucca. Non mi va né sono in grado di tentare un’analisi: ne avrete lette diverse e di segno diverso, scritte da persone più competenti. Io al massimo ogni volta ne ho respirato l’aria, sentendola mutare. Games, cosplayers, multimedialità, “l’entertainment”… Sempre meno fumetto, insomma.
Ripeto, lascio le analisi a chi ne sa di più. Posso solo dire: non cercate quest’anno a Lucca ciò che era (ne resterete delusi; alla meglio spaesati; alla peggio incazzati), ma ciò che vi può dare oggi. E’ tutto il mondo ad essere cambiato. Con lui, tutto il mondo dell’intrattenimento. Forse, tutto il mondo della narrazione e tutto “il modo” di “fare narrazione”…

(Una lunga parentesi: quest’ultimo punto darebbe molto su cui ragionare. Forse si dovrebbe cominciare a riflettere seriamente sul fatto che il mestiere stesso di “narratore a fumetti” – sia esso disegnatore, sceneggiatore o autore completo – è cambiato/sta cambiando, diventando quello di ”creatore di storie per immagini che utilizzano diversi linguaggi”; la sfida sta dunque nel mantenere attuale il fumetto utilizzandolo in sinergia con altri linguaggi. Una semplice trasposizione in digitale del “prodotto” non è la risposta. Molto su cui ragionare, dicevo: non sarà questo il momento o la sede)

Tutto il mondo dell’intrattenimento è cambiato, dicevo. Normale che pure Lucca cambiasse. E non sono qui a scrivere in nome di chissà quali “bei tempi andati”. A Lucca quest’anno quasi di sicuro ci sarò con mia figlia, 12 anni, una passione per il fumetto da poco “esplosa”. Anche questa una novità, per me significativa ed emozionante.

Dunque Lucca resta: qui il programma 2013. Magari sta al fumetto come Sanremo sta alla canzone italiana: festival pop più che rassegna d’élite (che ad onor del vero non è mai stata), ma ci sarà, sempre vitale. E, per quanto mi riguarda, lunga vita a Lucca, con i suoi limiti e le sue contraddizioni.
Peccato solo che scrivo queste righe NON per parlare di una rassegna fumettistica che (con limiti e contraddizioni, come detto) vive d’ottima salute, ma di due realtà di cui sono stato ospite l’anno scorso: Komikazen e Cesena Comics. Per me, due splendide esperienze: di Komizazen parlai qui.

L'una e l'altra si dibattono fra mille difficoltà (spero di non aver portato sfiga io…). Lo staff della manifestazione cesenate mi scrive che “la quinta edizione del nostro piccolo festival, Cesena Comics & Stories, non ci sarà. Come tante altre iniziative culturali, semplicemente non abbiamo più sostenitori sufficienti per assicurare un’edizione allo stesso livello delle precedenti. Confidiamo in un 2014 più fortunato”. Avendo constatato in prima persona la competenza, l’entusiasmo, la passione degli organizzatori, sono il primo ad unirmi al loro auspicio.
Anche Komikazen ha visto ridursi le risorse a propria disposizione. Ma resiste: ecco il programma di quest’anno: il link vale anche come sincero consiglio, a chi può, di andare e sostenere l’iniziativa.

Non ho nulla contro Lucca, e mi sembra d’averlo dimostrato. Ma mi rattrista che realtà alternative come Komikazen e Cesena Comics vivano queste difficoltà. Un mondo del fumetto con Lucca E Komikazen è okay. Un mondo in cui ci fosse spazio per la prima e non per la seconda non sarebbe una buona notizia. Non per il fumetto in sé; forse, a lungo termine, neppure per Lucca…

Francesco “baro” Barilli

sabato 28 settembre 2013

Ben venga l’appello contro la tortura di Stato. Però…

Vi segnalo “l’appello per una campagna nazionale contro la repressione e la tortura di Stato”.

Non starò a sottolineare la stima che ho per i firmatari, nè l’affetto che mi lega ad alcuni di essi, e non starò neppure a rimarcare le molte parti che condivido. Non lo farò perché non voglio scivolare nel personale e – soprattutto – perché sarò già abbastanza prolisso nel soffermarmi sui soli passaggi che non mi sono piaciuti (li vedremo in seguito) e sulla “impronta” che quei passaggi, forse persino al di là delle intenzioni dei proponenti, finiscono col dare all’appello.

Mentre scrivo queste righe è il 25 settembre: 8 anni fa, l’uccisione di Federico Aldrovandi… Ricordarlo ora mi sembra più che doveroso. Chi mi conosce sa che il mio no alla tortura è scontato (ed è un no “senza se e senza ma”) e che mai ho mancato di sottolineare, della tortura, la matrice repressiva di stato, la strisciante impronta “di classe”, il suo utilizzo cosciente per combattere i conflitti sociali.

Ora, un aneddoto…

La scorsa estate ero con Matteo Fenoglio, in una delle tante iniziative dove abbiamo parlato della strage di Piazza della Loggia. Le circostanze fecero scivolare la discussione sugli anni 70: mi chiesero un parere sulle BR. Dissi che le BR, al di là delle intenzioni originali e della loro genesi e della buona fede di tanti, erano finite con l’essere un macigno calato sulle lotte sociali del ciclo partito col 68. Che lo Stato, dove non era riuscito con le stragi, era riuscito nei suoi intenti proprio col metodo più subdolo: strumentalizzare la violenza delle BR per instillare (lentamente: l’effetto lo abbiamo visto negli anni 80 e 90; oggi si è definitivamente affermato) il pensiero comune secondo cui gli anni 70 sono stati solo orrore follia violenza e morte. E, aggiunsi, la critica più forte che facevo alle BR non era tanto o solo l’aver provocato questo processo (ripeto: al di là della buona fede di tanti, delle intenzioni iniziali, delle storie individuali – anche diversissime – che si dipanano nella storia complessiva della lotta armata) quanto il non ammettere, oggi, quel torto.
Non l’avessi mai fatto!!! Mi si rispose (giuro: più o meno testuale) che “le BR sono state l’ultimo vero movimento di massa, i brigatisti sono stati la vera prosecuzione della lotta partigiana, tradita dai partiti di sinistra!!!, sconfitti SOLO dalle violenze e dalle torture dello stato”. A me non suonava mica tanto corretto…

Ora, vi chiederete, che c’entra tutto questo con l’appello? C’entra, c’entra… Perché il punto è:
- IPOTESI 1: l’appello tende a dire no alla tortura; a ricordare che il primo a torturare e reprimere è lo stato (dal povero Serantini a Triaca ai brigatisti nei ’70 fino ai casi recenti che purtroppo ben conosciamo). Allora ok, ci siamo.
- IPOTESI 2: oltre a dire no alla tortura, si vuole ridare dignità alla lotta armata. Ma lo si vuole fare al di là della ragionevolezza. Allora no, non ci siamo. Vedremo fra poco perché…

Parliamo dunque delle frasi a cui accennavo in premessa (quelle che non condivido): “… Professor De Tormentis” - capo della squadra di aguzzini alle dirette dipendenze del Ministero degli Interni, istituita per estorcere confessioni ai militanti delle Br nel pieno della guerra civile che si combatteva in Italia alla fine degli anni ’70”; “Il caso Triaca assume quindi una forte valenza simbolica, sineddotica: da un lato grimaldello per fare opera di memoria su quanto accaduto in Italia ai militanti politici tra il ’78 e l’82, dall’altro spiraglio per aprire un dibattito storicizzante sulle lotte degli anni’70, senza tabù e rischi di astrazioni decontestualizzanti volte a perimetrarne la portata e screditare con sommario arbitrio le esperienze rivoluzionarie che ne furono avanguardie”.

(due spiegazioni brevissime per coloro a cui i nomi di Triaca o  di “De Tormentis” fossero sconosciuti. Delle torture subite dai brigatisti, e in generale dai componenti di gruppi armati di sinistra, si parlò all’epoca dei fatti. Si è tornati a parlarne dopo che Nicola Rao ha pubblicato nel 2011 “Colpo al cuore”, Sperling & Kupfer. Un libro fondamentale sulla questione, che ricostruisce la genesi e lo sviluppo della “strategia delle torture” e può contare su testimonianze dirette di chi commise gli abusi. “Professor De Tormentis” era il nome in codice del capo della “squadra speciale” incaricata delle torture, finalizzate ad estorcere confessioni. Enrico Triaca fu tra quelli che, torturati, presentarono denuncia: fu condannato per calunnia… Il caso è stato riaperto, anche a seguito del libro di Rao, e ad ottobre partirà la revisione del processo che lo vide condannato. Tutte cose che ho sintetizzato brutalmente: le trovate spiegate in modo più esauriente nell’appello).

Torniamo a noi… Dicevo che se davvero l’appello rientra in quella che ho definito “ipotesi2” (“oltre a dire no alla tortura, si vuole ridare dignità alla lotta armata”) non ci siamo proprio…

Attenzione: non metto in discussione quelle che furono le intenzioni originarie di compagni e compagne che scelsero la lotta armata; ma “le avanguardie” si sono screditate da sole, con le loro azioni che, via via, degenerarono. Poi, su quelle degenerazioni lo Stato ha avuto gioco facile nel costruire il revisionismo e, siccome gli faceva comodo, le torture le ha cancellate dalla propria storia. Ma (proprio perché noi vogliamo denunciare e combattere l’ipocrisia dello stato e il revisionismo) non è che per riportare a galla le torture si debbano cancellare le degenerazioni della lotta armata: sarebbe una sorta di revisionismo speculare. E non vorrei che (magari in buona fede) fosse questa l’intenzione di alcuni dei firmatari dell’appello; o, se non l’intenzione, finisse con l’esserne l’effetto o la percezione…

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Entriamo dunque nel merito di quel periodo (sommariamente i primi anni ’80) in cui per affrontare la cosiddetta “emergenza terrorismo” lo Stato non si mostrò semplicemente “forte” (come vuole la retorica ufficiale che racconta quegli anni, nell’ansia semplicistica di ricondurre quella stagione a una lotta del “bene” contro il “male”), ma si spinse sulla strada della ferocia. Questa degenerazione fu in parte palese e portò a disposizioni che andarono a restringere la sfera dei diritti individuali, in parte fu sotterranea (ma comunque conseguenza del succitato impalcato normativo emergenziale) e sfociò nella pratica della tortura. C’è una bella frase di Leonardo Sciascia, terribilmente attuale: “Non c’è paese al mondo che ormai ammetta nelle proprie leggi la tortura: ma di fatto sono pochi quelli in cui le polizie, sottopolizie e criptopolizie non la pratichino. Nei paesi scarsamente sensibili al diritto – anche quando se ne proclamano antesignani e custodi – il fatto che la tortura non appartenga più alla legge ha conferito al praticarla occultamente uno sconfinato arbitrio”.

Nel 1982, dopo reiterate denunce, l’allora ministro dell’interno Virginio Rognoni dovette rispondere in Parlamento a interrogazioni che possiamo riassumere in una sola domanda fondamentale: per battere il terrorismo erano stati superati i limiti posti come base della democrazia e dello stato di diritto? Quella che fu la risposta di Rognoni, e in generale delle istituzioni, mi sembra scontata. Del resto anche George W. Bush nel novembre 2005, quando era Presidente degli Stati Uniti, disse perentoriamente “Noi non torturiamo”, incurante delle smentite fattuali, avvenute prima e dopo quell’affermazione. Ironicamente (come ha notato Naomi Klein in un articolo su The Nation e come ha ricordato Chiara Acheri su Liberazione del 22 febbraio 2006) Bush pronunciò quella frase a Panama, dove gli USA gestirono fino al 1984 “la School of the Americas, il famigerato laboratorio di addestramento controrivoluzionario dove migliaia di agenti segreti e soldati … hanno appreso i metodi di pressione fisica e psicologica poi ampiamente usate dalle squadre di Pinochet in Cile e dagli altri regimi latinoamericani” (estratto dal citato articolo di Acheri).
Solo successivamente Bush ha ammesso di essere stato a conoscenza delle tecniche di interrogatorio usate nella lotta al terrorismo internazionale, e di averle avallate. Si tratta di metodi (fra cui il tristemente famoso waterboarding, utilizzato pure in Italia nel periodo fine 70 inizi 80) sicuramente definibili come torture, ma dichiarati ammissibili “in punta di diritto” dall’amministrazione statunitense. Del resto già Blaise Pascal denunciava con un aforisma come la forza possa sostituirsi al diritto: “Non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto”. Tutto questo avviene anche grazie a un indebolimento della capacità di risposta della società, la quale – travolta da ansie securitarie – appare disposta ad accettare limitazioni dei diritti civili, se queste comportano, almeno a livello di percezione, maggiore sicurezza.
Tornando in Italia, e al di là delle risposte dell’allora ministro Rognoni, il numero e l’omogeneità delle denunce possono portare a una conclusione: le torture non furono il frutto di “poche mele marce”, ma di una strategia in cui l’efficacia poteva e doveva andare a discapito dei principi.

(Aggiungo una considerazione “laterale” – meriterebbe uno sviluppo più ampio, ma appare doveroso formularla perlomeno come accenno: l’Italia è tuttora priva nel suo ordinamento giuridico di un titolo di reato specifico sulla tortura, a più di 25 anni dalla firma della convenzione ONU sulla materia. La questione viene periodicamente ripresa, ma con molto meno vigore di quanto meriterebbe, da alcuni politici e dagli organi di stampa – tanto per citare un solo caso eclatante: quando si è parlato di quanto accaduto alla caserma di Bolzaneto durante i fatti del G8 genovese del luglio 2001 – ma il maturare di una seria coscienza sull’argomento appare ancora lontano).

***

Tempo fa avevo scritto un lungo racconto, imperniato su una ragazza, ex militante di un gruppo armato (che intenzionalmente lasciavo nel vago) che subiva quelle torture… Lo iniziai nel 2008 (tranquilli, non voglio parlare di me o farmi pubblicità: non so se mai vedrà la luce e non è questo il punto). Come accennavo sopra, delle violenze subite dai brigatisti nei primi’80 nessuno parlava da tempo. Sembrava una pagina “rimossa”, più che dimenticata.
La pagina è stata riaperta da Nicola Rao col suo libro. Si è così tornati a parlarne, ma sempre sommessamente, quasi con fastidio, riuscendo a spegnere in fretta il dibattito che si stava aprendo, o confinandolo nelle pagine “di retrovia” dei quotidiani fino a farlo sparire del tutto. Così ripresi in mano il racconto…

Mentre scrivevo, il tema dei cosiddetti “anni di piombo” è sporadicamente riaffiorato. Per essere, sempre, chiuso in fretta e con fastidio. Spesso con la chiosa delle lamentele di alcuni parenti di vittime di quella stagione, persone che magari manifestavano sdegno per interventi di ex brigatisti.
L’atteggiamento di chi ha perso i propri cari è assolutamente comprensibile e non va bollato come semplice “vendettismo”. Ritengo però si debba distinguere questa posizione personale da quella di chi ne appoggia le istanze, sembrandomi quest’ultima strumentale e demagogica, e soprattutto interessata più a stendere un velo di silenzio su quegli anni, piuttosto che a concedere una sorta di risarcimento morale alle vittime sotto la forma discutibile (e non so quanto efficace) di una condanna al silenzio verso i protagonisti di quella stagione. Ho inoltre la sensazione che quella condanna al silenzio rischierebbe di essere estesa implicitamente tanto ai carnefici quanto alle vittime, perché la violenza politica degli anni ’70 e ’80 è una memoria scomoda per quanto già emerso, ma pure per lo strato tuttora sommerso. Sintomatico, da questo punto di vista, è che il dibattito su quegli anni spesso si limita a circoscrivere il fenomeno alle BR o comunque alle sole formazioni dell’estrema sinistra: su tutto il resto, compreso lo stragismo “nero” da Piazza Fontana in poi, è sceso il silenzio, salvo lodevoli eccezioni.
Ritengo che la domanda fondamentale, per chi si interessa a quegli anni, sia questa: la stagione della lotta armata la vogliamo semplicemente chiudere, come accennato precedentemente, descrivendo una lotta di “bene” contro “male”, oppure vogliamo interrogarci sul contesto degli “anni di piombo” e sui processi che si svilupparono? Purtroppo si tratta di una domanda retorica: da più parti si vorrebbe che quegli avvenimenti fossero rimossi, negando si possano e debbano inquadrare. Si punta ad arrivare al finale di un ragionamento (una condanna delle degenerazioni) negando i passaggi intermedi, senza quindi interrogarsi sui perché delle degenerazioni.
Le rimozioni mi inquietano: quasi mai sono innocenti, sicuramente mai risultano utili, se non a fini che di storico hanno ben poco. Per questo scelsi, nel racconto, di soffermarmi sulle torture riservate ai componenti delle formazioni armate della sinistra extraparlamentare, ossia su un aspetto mai veramente affrontato. Non m’interessava chiedermi se quei metodi fossero o meno necessari: mi bastava non cadessero nel dimenticatoio. Non m’interessava analizzare se le mani che hanno contribuito a sconfiggere la lotta armata dovevano affondare nel sangue o se potevano evitarlo: mi bastava denunciare che l’hanno fatto, e ricordare che quelle mani oggi non possono pretendere di presentarsi pulite e profumate… Ma non voglio combattere quella rimozione con una uguale e di segno contrario.

Intendiamoci: sono sempre stato più portato a capire che non a condannare. E le torture subite dai brigatisti non mi sono mai sembrate la semplice risposta uguale e contraria alle loro colpe. La violenza di chi punisce per me ha sempre un sapore inaccettabile. Mostra che i vincitori sanno esibire solo la superiorità della loro forza, e questo mi fa dubitare della superiorità delle loro ragioni. Quelle torture, inoltre, erano particolarmente odiose, perché esercitate da uno Stato che voleva presentarsi come “forte ma giusto”. Sui crimini dei brigatisti si è parlato molto; quelli dello Stato, sapientemente occultati, demolivano il senso della giustizia proprio mentre pretendevano di affermarlo.

Francesco “baro” Barilli

martedì 17 settembre 2013

La Palestina nei fumetti di Joe Sacco e Guy Delisle

E’ persino banale cominciare questo pezzo lamentando la scarsa e superficiale fama di cui gode il fumetto in Italia, fatta eccezione per una ristretta nicchia di appassionati e addetti ai lavori. Anche fermandoci alla sola categoria del cosiddetto graphic journalism, opere di questo tipo vengono spesso recensite positivamente, ma ad esse sembra riconosciuto il solo merito della capacità di sintesi, di una maggiore fruibilità da parte dei giovani, quasi si trattasse di “bigini” buoni per infarinarsi su un dato argomento, riservando l’approfondimento ad altre (e “più alte”) forme espressive.
Può dunque sembrare paradossale che proprio una tematica complessa la si possa esaurientemente raccontare a fumetti. La questione Palestinese (drammatica e che affonda le radici in secoli lontani, ma giunge fino all’attualità con un’atroce scia di sangue e soprusi) è un esempio paradigmatico di questa possibilità. E i tre lavori di cui parliamo oggi sono “Palestina. Una nazione occupata”, “Gaza 1956. Note ai margini della storia” (entrambi di Joe Sacco, Mondadori) e “Cronache di Gerusalemme” (Guy Delisle, Rizzoli Lizard): un ottimo compendio sul dramma palestinese, anche perché incentrati su tre momenti storici diversi.

“Palestina. Una nazione occupata”
Con questo primo libro Joe Sacco racconta il proprio viaggio compiuto in Cisgiordania e nella striscia di Gaza tra la fine del 1991 e l’inizio del 92, con la prima Intifada già in azione da tempo. E lo fa con uno stile diventato ormai riconoscibilissimo a livello mondiale: rappresentandosi in prima persona, occhialini tondi, nasone e labbra pronunciate, un berretto calato sui capelli corti quando il freddo è pungente.
Ma l’autorappresentarsi di Sacco non è segno di narcisismo o protagonismo, né della volontà di mettere il proprio punto di vista al centro del lavoro. L’autore incrocia, nel proprio percorso, diverse persone: lascia a loro raccontare storie ed emozioni. Il giovane giornalista, all’epoca poco più che trentenne, sembra volere, quasi paradossalmente vista la scelta di autoinserirsi fra i personaggi del fumetto, accantonare le proprie sensazioni (che comunque lascia scivolare in alcune occasioni) per lasciare spazio a quelle degli intervistati. Sembra essersi proiettato in un mondo per lui fino a poco prima sconosciuto.
Quella di Sacco non è la ricerca dell’obbiettività assoluta (che è pura astrazione), ma dell’onestà intellettuale, figlia della consapevolezza di essere un giornalista, che ha nelle proprie mani la piccola parte di un’arma formidabile: migliaia di lettori, il potere di far dimettere Presidenti, di contribuire a cambiare il corso della Storia. O perlomeno di dare voce a chi non ne ha mai avuta, facendo così vibrare coscienze addomesticate dalle versioni di comodo del potere…
Sacco è un testimone, nel senso più alto e ampio della parola, di storie (della Storia…) altrui. Non è certo un eroe: delle sue sensazioni quella che emerge più nitidamente è la paura, quando si trova a doverla condividere coi suoi occasionali compagni di viaggio. L’autore non dà mai risposte; si intuiscono le sue domande, la sua – naturale e umana prima che professionale – curiosità e la sua partecipazione, ma quel che gli interessa è trasmettere i racconti degli intervistati, che a loro volta ci trasmettono l’occupazione israeliana non tanto nei “grandi eventi”, che rischiano di affondare la percezione della tragedia in una sorta di assuefazione all’orrore, quanto nei terrificanti segni della quotidianità.

“Gaza 1956. Note ai margini della storia”
Colpito dalla situazione che aveva rappresentato in “Palestina”, nel 2002 Sacco torna negli stessi luoghi. Ma non scrive una sorta di “attualizzazione” del precedente fumetto. La scelta poteva sembrare scontata: da un paio d’anni era in corso la seconda Intifada, e poteva essere naturale che l’autore volesse raccontarla, dopo aver vissuto nei Territori per due mesi durante la prima. Sceglie invece di raccontare un periodo più antico, che ci costringe a una breve digressione storica.

Durante la cosiddetta crisi di Suez, o guerra del Sinai, la Striscia fu occupata dall’esercito israeliano. Con la scusa della ricerca dei fedayn, gli israeliani procedettero a una vera e propria caccia all’uomo. Sacco racconta in particolare dei rastrellamenti a Rafah e Khan Younis (a sud della striscia di Gaza), dove gli uomini adulti furono sistematicamente radunati in aree aperte e – molti – uccisi. Siamo nel novembre 1956: fatti tragici quanto dimenticati, scalzati da orrori più recenti; “note ai margini della storia”, come amaramente sintetizza Sacco nel sottotitolo a “Gaza 1956”.

Con lo stesso approccio stilistico e narrativo visto nel precedente volume, Sacco incontra diversi testimoni, sopravvissuti del novembre 56. Tutti ricordano in particolare le violenze, la paura, le umiliazioni dei rastrellamenti. Proprio l’omogeneità dei racconti li rende più attendibili. Può sembrare distonico o fuori luogo (ma in fondo non so se e quanto davvero lo sia…) ricordare quanto scrissero, tanti anni dopo e in un Paese e un contesto diversi, i pubblici ministeri genovesi nella memoria conclusiva del processo sui fatti della Scuola Diaz: “… l’unico elemento omogeneo e convergente (ndr: rispetto agli occupanti della scuola Diaz) si è dimostrato essere la drammatica rappresentazione dei fatti resa da ciascuno di loro. Ciò che lega una ventenne studentessa americana proveniente dall’Oregon, un giornalista di un diffuso e noto quotidiano italiano, una sessantaquattrenne signora spagnola residente in Germania, un’esule turca con asilo politico in Svizzera, un violoncellista di Berlino e ancora giovani di ogni provenienza è solo un racconto uniforme, coerente, fluente e impressionante; un dettagliato resoconto che … è stato trasferito in tutta la sua viva dimensione anche nel corso del processo, con la partecipazione di chi alle incredule orecchie che ascoltavano ha dovuto trasmettere la sensazione di aver vissuto un incubo, descrivendo la furia di colpi inferti senza ragione, con determinazione, odio e disprezzo”.

“Cronache di Gerusalemme”
Canadese, 42 anni alla fine del 2008, Guy Delisle si trasferisce per un anno in Israele con tutta la famiglia, dove segue la moglie Nadège, impegnata in Medici senza Frontiere.
Anche Delisle si autorappresenta nel fumetto. E anche lui usa, o cerca di mantenere e di trasmetterci, freddezza e distacco pure nelle scene più “scomode”. Ma queste sono le uniche analogie con lo stile di Sacco.
La differenza non sta tanto o solo nel segno grafico (caricaturale ma ricco e dinamico quello di Sacco; povero, statico ed essenziale, quasi “infantile” quello di Delisle. La modulazione delle tavole del primo è estremamente varia, ricca di vignette e didascalie oblique o verticali, spesso priva della “gabbia” regolare – a strisce di due/tre vignette – che invece caratterizza quasi sempre la rigida “griglia” delle tavole del secondo).
Sacco, nei campi profughi, infila i suoi piedi nello stesso pantano in cui sono costretti “gli ospiti” (uso intenzionalmente il termine che, da noi, la retorica ufficiale vuole usare per i prigionieri dei C.I.E.). In generale, nei suoi soggiorni in Palestina si costringe a vivere le stesse condizioni di precarietà di chi vive stabilmente nei Territori occupati. Anche Delisle si mescola con la gente (anche perché, come accennato, la sua permanenza continuativa a Gerusalemme è stata molto più lunga), ma lo fa in modo più “aristocratico”. Frequenta “ambienti buoni”, lo vediamo in giro per supermercati o ritratto nelle incombenze quotidiane coi suoi due figli. La sua curiosità, sicuramente accostabile a quella del collega americano, è quella dell’osservatore distante e “terzo”, laddove Sacco invece cerca di azzerare le distanze. La cifra stilistica di Delisle, a livello di approccio narrativo, è un’ironia che vuol farsi didattica.

Se Sacco dopo un po’ sembra essere, o sforzarsi di essere, “uno dei palestinesi”, Delisle dà l’impressione di voler rimanere un estraneo che si sforza di comprendere una realtà lontana e aliena. E la sua estraneità pare volercela comunicare attraverso il famigerato muro, che rende i suoi spostamenti difficili e tortuosi (e pressochè impossibili quelli dei palestinesi): non solo lo rappresenta in varie sequenze, ma spesso si mostra ai lettori fermo nell’atto di disegnarlo, magari fino a quando un militare israeliano non lo allontana con fermezza.
L’autore sembra poi particolarmente impressionato dalle piccole e grandi “manie” che le diverse religiosità manifestano a Gerusalemme e dintorni. Anche per queste Delisle ha un atteggiamento che, seppur rispettoso dei diversi credo, denota uno sguardo scettico verso riti che devono apparirgli non solo poco comprensibili, ma soprattutto viva testimonianza di come l’ottuso integralismo religioso (di diverse matrici) impedisca da secoli in quella regione una civile convivenza fra i popoli.
Forte della sua terzietà, Delisle si sforza di presentare anche piccoli e timidi tentativi di convivenza fra palestinesi e israeliani. Ma su tutto lascia incombere l’ombra di quella diversità culturale, ben simboleggiata dalla sua già menzionata ossessione per il muro e dalle sue frequenti denunce dell’arroganza dei coloni israeliani.

***

1956, 1992, 2008. Sacco e Delisle abbracciano un arco di cinquant’anni di storia della regione. Momenti diversi, certo, ma la storia non è un insieme incoerente di schegge isolate, quanto un unico flusso di avvenimenti, dove ogni fatto si lega al precedente e al successivo. Rimuoverne o dimenticarne uno rende incomprensibile il quadro completo.
Ma, più di tutto, al lettore resta l’esemplare e umanissima chiosa finale di Sacco nel suo “Gaza 1956”. Quando un vecchio palestinese, alla domanda su quale sia la cosa peggiore che ricorda di quei giorni, risponde “La paura. La paura…”. E’ allora che Sacco si autorappresenta per una volta diverso dal prototipo del giornalista freddo e impassibile.  Di profilo, se ne scorgono labbra serrate e occhi strizzati in un moto di dolore e rabbia, mentre sottolinea: “E all’improvviso provai vergogna per aver perso qualcosa lungo la strada mentre verificavo le mie prove, le sbrogliavo, le sezionavo, le indicizzavo e le registravo sulla mia tabella. E mi ero ricordato quanto spesso mi ero trovato a parlare con vecchi che mettevano alla prova la mia pazienza, che menavano il can per l’aia, che mescolavano le cose, che saltavano dei passaggi, che non si ricordavano del filo spinato al cancello o di quando i mukhtar si erano alzati o dove erano parcheggiate le jeep. Quante volte avevo sospirato e alzato gli occhi al cielo perché ne sapevo di più io di quel giorno che loro”. Le vignette successive, silenziose, ripercorrono un rastrellamento, il terrore nei visi di vecchi palestinesi, le bastonate, e tutto si conclude in un riquadro nero.

Francesco “baro” Barilli

giovedì 22 agosto 2013

Born into this

Non credo d’aver mai raccontato come e perché Charles Bukowski sia importante per me (un’importanza che prescinde l’effettivo valore artistico dell’autore, su cui non voglio addentrarmi). Non l’ho fatto in passato e non lo farò ora. Basti dire che ci sono episodi e artisti fondamentali, nella vita di ognuno e per la formazione di ogni scrittore. Per quanto mi riguarda, e l’ho già detto, Genova 2001 e il caso Pinelli sono stati quegli episodi. Dal punto di vista artistico, De Andrè e Bukowski sono stati quegli autori: confesso che in molti miei racconti giovanili scimmiottavo “il grande Hank” (per fortuna poi ho smesso…).
Di Bukowski ho letto pressochè tutto ciò che è stato pubblicato in Italia, a livello di prosa. Alcune cose le reputo tuttora notevoli, altre no. Ho sempre trascurato le poesie. Un po’ perché in generale non m’attira la poesia, un po’ per la mia scarsa competenza nell’inglese: ritengo che la prosa, se ben tradotta, sia fruibile indipendentemente dalla “matrice” originale, mentre la poesia faticherà sempre a essere resa efficacemente al di fuori della lingua in cui è stata scritta. La traduzione più attenta potrà riprodurla egregiamente, o persino migliorarla in alcuni casi, ma produrrà sempre “qualcosa di diverso”, per musicalità e ritmo, dall’originale.

Ma alcuni giorni fa mi sono imbattuto in una lirica di Bukowski, “Born into this” (che dà anche il titolo a un interessante documentario sulla vita dello scrittore). Mi ha colpito molto e ne riporto alcuni passaggi (tagliati):

“Nati così in mezzo a tutto questo
tra facce di gesso che ghignano
e la signora morte che se la ride

mentre gli orizzonti politici si dissolvono
mentre il ragazzo della spesa del supermercato ha una laurea
mentre i pesci sporchi di petrolio sputano la loro preda oleosa
e il sole è mascherato

siamo nati così
in mezzo a tutto questo
tra queste guerre attentamente matte

in mezzo a bar dove le persone non si parlano più

tra ospedali così costosi che conviene lasciarsi morire

in un Paese dove le galere sono piene

in un posto dove le masse trasformano i cretini in eroi di successo

siamo nati in un governo in debito di 60 anni
che presto non potrà nemmeno pagare gli interessi su quel debito
e le banche bruceranno
il denaro sarà inutile
ammazzarsi per strada in pieno giorno non sarà più un crimine
resteranno solo pistole e folle di sbandati
la terra sarà inutile
il cibo diventerà un rendimento decrescente
l’energia nucleare finirà in mano alle masse
il pianeta sarà scosso da un’esplosione dopo l’altra

il sole sarà invisibile e sarà la notte eterna
gli alberi moriranno
e tutta la vegetazione morirà
uomini radioattivi si nutriranno della carne di uomini radioattivi
il mare sarà avvelenato
laghi e fiumi spariranno
la pioggia sarà il nuovo oro
la puzza delle carcasse di uomini e animali si propagherà nel vento oscuro
gli ultimi pochi superstiti saranno oppressi da malattie nuove e orrende
e le piattaforme spaziali saranno distrutte dalla collisione
il progressivo esaurimento di provviste
l’effetto naturale della decadenza generale
e il più bel silenzio mai ascoltato
nascerà da tutto questo
il sole nascosto
attenderà il capitolo successivo”


Alcuni versi, specie i conclusivi, li trovo bellissimi. Ma, soprattutto, la poesia mi sembra terribilmente attuale.
L’incubo nucleare è forse l’unico elemento che oggi suona anacronistico (ma non privo di fondamento, se pensiamo che uno scenario apocalittico non deve necessariamente essere frutto del post-atomico: la distruzione di risorse e il disastro ecologico non sono legati solo a quello, è ormai chiaro). E in ogni caso questo passaggio merita altre riflessioni. Perché ci ricorda come e quanto, in anni non così lontani, il mondo fosse pervaso da quel terrore. Si potrebbero citare molte testimonianze, nei più svariati campi artistici, mosse dalla stessa paura: la mia passione per il fumetto mi fa citare solo “Watchmen” di Alan Moore e Dave Gibbons. Inoltre, i versi “il più bel silenzio mai ascoltato/nascerà da tutto questo/il sole nascosto/attenderà il capitolo successivo” mi fanno venire in mente un analogo scenario apocalittico:

“Vedremo soltanto una sfera di fuoco
più grande del sole, più vasta del mondo;
nemmeno un grido risuonerà
e solo il silenzio come un sudario si stenderà
fra il cielo e la terra
per mille secoli almeno
ma noi non ci saremo”


(“Noi non ci saremo”, di Francesco Guccini, cantata anche dai Nomadi. Il tema del mondo distrutto da una guerra nucleare lo si può trovare anche ne “L'atomica cinese”, sempre di Guccini).

Ciò che più mi ha colpito, dicevo, è l’attualità della critica di Bukowski alla società (americana e oggi, per estensione, globalizzata e capitalista) e al suo inevitabile precipitare verso il baratro. Se pensiamo che la poesia è dei primi anni ’70 le parole dell’autore appaiono davvero profetiche. Se pensiamo che si tratta di uno scrittore americano (seppure di origini tedesche), saldamente ancorato per tutta la sua vita e per il proprio sile narrativo al proprio “essere americano”, la traslazione della poesia all’attuale realtà occidentale è ancora più agghiacciante.
Ma ciò che più mi fa riflettere è la triste fotografia di un paese in cui è fin troppo facile riconoscere innanzitutto l’Italia e, a seguire, il mondo occidentale, “dove le galere sono piene, dove le masse trasformano i cretini in eroi di successo, con un governo che presto non potrà nemmeno pagare gli interessi sul debito, e dove le banche bruceranno…”. La fotografia proviene da uno scrittore non incasellabile politicamente (se non per una generica e neppure del tutto calzante inclinazione verso l’anarchia), a cui ora mi sento ancora più legato.

Francesco “baro” Barilli

domenica 4 agosto 2013

Vent’anni buttati nel cesso…

(Qualche precisazione prima di iniziare.

- Già prima del verdetto di cassazione dell’altro giorno m’irritava il sentir parlare di “sentenza politica”. Se penso all’uso politico della giustizia, penso alle assurde accuse ai No Tav, alla “devastazione e saccheggio” che ha “regalato” condanne a dieci e passa anni ai manifestanti per i fatti di Genova… A tante cose, insomma: certamente non al processo per frode fiscale in cui è incappato Berlusconi.
- Detto questo, e al netto di questo, della sentenza su B. m’importava poco prima e poco ora. Al massimo: un sorriso al pensiero di quali sarebbero state le reazioni degli esponenti del PD se il verdetto fosse uscito mentre B. era presidente del consiglio e loro all’opposizione… Non so se davvero la storia sia maestra di vita; sicuramente col sarcasmo non se la cava male…
- Visto che in questi giorni il più è stato detto, mi soffermo su una cosa magari non fondamentale, ma che se non vado errato pochi hanno sottolineato.

Fine delle precisazioni…)

In un paese normale Berlusconi sarebbe arrivato alla sentenza da ex leader. E questo, voglio rimarcarlo, indipendentemente da quello che può essere il giudizio sulla correttezza del verdetto.
Credetemi, sto cercando di fare un discorso molto “laico”, che prescinda qualsiasi valutazione personale sul “personaggio B.”. Quel che intendo dire è che in qualsiasi paese il partito X, avendo il proprio leader Pinco Pallo alle prese con tanti e tali guai giudiziari (e, ripeto, anche dando per buona la convinzione degli esponenti di X che Pinco Pallo sia vittima di una persecuzione giudiziaria) il partito stesso avrebbe aperto da anni una sorta di ristrutturazione interna, inducendo Pinco Pallo al “passo indietro”.

Ecco, forse la sentenza del primo agosto non dice nulla di nuovo, niente che faccia cambiare l’idea che ognuno di noi già aveva di Berlusconi, qualunque essa fosse. Ma svela una volta per tutte che Forza Italia quanto il PdL non sono mai stati “partiti”, ma semplici propaggini degli interessi di una persona. Praticamente società off shore della politica, costituite per via carismatica.

“Vent’anni buttati nel cesso” li spiego così: vent’anni in cui molti hanno creduto di parlare di politica, occupandosi in realtà d’altro: innanzitutto degli affari di un singolo individuo e delle sue aziende. Scopro l’acqua calda, lo so, ma in fondo è significativo che alla fine Berlusconi sia inciampato proprio su un “fatto di soldi” (la frode fiscale): il denaro (il suo…) fin dalla sua “discesa in campo” era l’unica cosa che gli è sempre interessata; l’unica cosa dove lo si poteva davvero ferire.

Il gigantesco imbroglio che ha scambiato l’agenda di B. con quella del Paese ha ingannato forse anche qualche “moderato” che sinceramente credeva nella “rivoluzione liberale”. Poco m’importa della loro delusione oggi e poco mi sarebbe interessata una eventuale “rivoluzione liberale”, anche fosse stata sincera… M’importa più del fatto che, di riflesso, tutti noi abbiamo buttato vent’anni nel cesso, fregati da un uomo che in altri tempi sarebbe stato buono solo per vendere polizze assicurative taroccate.

(Aggiornamento dell’ultima ora. Ho scritto questa riflessione subito dopo la sentenza. Convinto che, almeno, si fosse scritta la parola fine a tutta questa storia. Gli ultimi sviluppi mi fanno capire che mi sbagliavo).

Francesco “baro” Barilli

venerdì 19 luglio 2013

Una sera passata ascoltando Gipi… e strane emozioni…

(sì: violando ogni manuale di "buona scrittura" comincio con una parentesi. Ieri sera ero alla festa dell’Arci di Cremona, per ascoltare Gipi. Ho letto molti suoi libri – che consiglio vivamente a tutti. Non avevo ancora visto i suoi cortometraggi, e ieri ho capito d’essermi perso qualcosa: li recupererò. Non l’avevo mai sentito parlare in pubblico, m’ha fatto una bella impressione: uomo diretto, artista lucido – che utilizza diverse forme espressive, sempre con originalità. Grande artista e bella persona, insomma. E tutto questo vale come consiglio per chi, fra quanti mi stanno leggendo, non lo conoscesse. Uno dei suoi cortometraggi ieri sera m’ha sconvolto – non è un’esagerazione: ci sono stato male tutta notte. E volevo parlarvene. Fine della parentesi).

Nel corso della serata è stato mostrato “A 1562 persone piace questo elemento”. (Potete vederlo qui). Il video è un collage di commenti realmente apparsi in rete un paio d’anni fa, all’epoca in cui l’omicidio di Sarah Scazzi occupava le prime pagine dei quotidiani e in generale l’apertura di ogni media mainstream. A quel tempo si pensava di aver individuato l’omicida nello zio (sviluppi processuali successivi hanno buttato al macero l’ipotesi; ma questo non c’entra nulla con l’argomento di cui voglio parlare oggi: sull’omicidio di Sarah Scazzi chi vuole può trovare facilmente informazioni).

Il caso ha voluto che ieri sera, poco prima della serata a Cremona, io avessi postato un brevissimo commento su Facebook su un fatto simile. Per chi non lo sapesse, recentemente dalle mie parti si è parlato molto del mortale investimento di una giovane ragazza da parte di un automobilista. Pochi giorni fa il “pirata della strada” (virgolette volute: non mi piacciono queste etichette; penso siano il primo sintomo di un’informazione che volutamente intende "creare il mostro", da Valpreda in poi) s’è costituito: un cittadino di origine marocchina. Dunque, proprio ieri m’era capitato di ascoltare al bar commenti simili a quelli ricordati da Gipi nel suo video sullo zio di Sarah.
Quei commenti ve li risparmio. Peraltro, molti sono analoghi a quelli “copincollati” da Gipi nel suo video sui fatti di Avetrana: “dovrebbero ammazzarlo”, “dovrebbero darlo a me”, “torturarlo”, “il carcere non serve”… Cose del genere, insomma; con in più qualche chicca sull’etnia del “pirata della strada” che vi lascio immaginare.

L’analogia m’ha colpito molto. Il punto è che Gipi nel suo video ci mostra commenti di gente sconosciuta, pubblicati su facebook, dove “il mezzo” a volte può essere (sia chiaro: questa NON è una scusante né un’attenuante) un filtro che porta certi individui a mostrare il proprio lato più becero, quasi queste persone abbiano dentro una dose di cattiveria che, da qualche parte e in qualche modo, deve uscire.
Io invece ho ascoltato gli stessi commenti da parte di uomini e donne che conosco, pur se solo di vista. L’ho detto tante volte: lavoro in un piccolo paese della “profonda padania”, dove ci si conosce quasi tutti. Alcuni di quelli che ho sentito magari hanno un vicino di casa nordafricano con cui hanno rapporti cordiali. Eppure, eccoli lì davanti a un caffè, a inveire senza filtro contro “l’assassino extracomunitario”.

In momenti e forme diverse la testimonianza di Gipi e la mia si accomunano. Entrambi abbiamo toccato con mano “la banalità del male”… Anzi, più che di banalità potrei parlare di “quotidianità del male”. Citando a braccio il mio amico Manuel: dentro di noi c’è qualcosa che può farci scavallare il limite, precipitandoci nella brutalità, nell’inumanità, facendoci perdere la capacità di vedere “nell’altro” lo specchio di noi stessi, di un’origine umana comune… E, paradossalmente, proprio il mio cercare di vedere me stesso “nell’altro” m’ha portato a chiedermi se anche in me ci sia – potenzialmente – lo stesso virus dei forcaioli che pontificano (su facebook o al bar).

Per un attimo ieri sera ho sentito il suono di un’umanità che dimentica la propria essenza, il pudore dell’esistenza, la consapevolezza della sua fragilità, la consapevolezza di quanto sia folle chi crede che nella propria vita non avrà mai bisogno della pietà altrui. Più che non piacermi, m’ha terrorizzato. Poi passa, lo so…

Francesco “baro” Barilli

martedì 9 luglio 2013

Sulla visita del papa a Lampedusa

Già prima della visita di Bergoglio a Lampedusa avevo scritto un breve commento su Facebook, dicendomi piacevolmente sorpreso dalla scelta. Avevo aggiunto pure una cosa passata abbastanza sotto silenzio, ossia le decisione di sbloccare la causa di beatificazione di monsignor Romero.
Prima e dopo la visita si sono succeduti altri commenti. Per lo più positivi. Alcuni, invece, hanno (legittimamente) sollevato dubbi. Secondo questi ultimi il gesto del papa sarebbe – o potrebbe essere – opportunista, insufficiente, “di facciata” eccetera.

Personalmente mi limito ad aggiungere poche cose.

- Da agnostico, non m’aspetto nulla dalla chiesa cattolica. La ritengo un centro di potere interessato principalmente alla propria autoperpetuazione e ai propri interessi, alla stregua di qualsiasi multinazionale (seppure sui generis). Il giudizio su singole azioni di singole persone può, ovviamente, essere molto diverso.

- Qualsiasi gesto può essere mosso da mille motivi (o da una pluralità di motivazioni, in parte etiche e in parte “pratiche”). Quando, però, quel gesto viene da chi è ritenuto da molti un’autorità morale a cui il proprio “sentire” deve relazionarsi, il gesto stesso va valutato per le implicazioni pratiche che può produrre.

- Ricordo bene i titoli di quotidiani come Libero o Il Giornale all’epoca del dibattito sul reato di clandestinità, sui CIE e sui tempi di detenzione in tali strutture. L’ho già scritto in passato: vivo nella “padania più profonda”, dove fino a ieri sparare sui barconi veniva ritenuto da tanti quasi una necessità; nel migliore dei casi, una “dolorosa” necessità. E questo avveniva, piaccia o meno, grazie all’indifferenza della chiesa rispetto a tali questioni. La chiesa cattolica (non lo scopro certo io né lo si scopre ora) influenza pesantemente NON SOLO il dibattito politico, ma il “sentire comune” in fatto di ciò che potremmo definire “scala di priorità” o “scala dei valori”. Tant’è vero che, in materia di “fine vita”, di aborto, di unioni civili, spesso si è sentito parlare di “valori non negoziabili” (“non negoziabili” per i cattolici, s’intende). Accoglienza e solidarietà sembravano sparite dall’agenda. Sembra che, d’ora in poi, non debba essere più così, e ne sono contento…

- Il 4 gennaio 2007 scrissi un articolo per Liberazione, dopo il rifiuto della concessione di esequie religiose a Piergiorgio Welby. Ne riprendo un passaggio, rielaborandolo: “Mi sembra che si possa parlare, più che di radici cristiane, della rivendicazione di una iconografia che supporta certi valori a scapito di altri, che pure dovrebbero far parte del patrimonio della cristianità. Appare paradossale (e, per dirla tutta, un po’ inquietante) la difesa del presepe o quella del crocefisso in luoghi pubblici (o, meglio: appaiono paradossali le energie spese in queste battaglie) di fronte alla sparizione di termini quali carità o solidarietà. Stupisce che, nelle varie rivendicazioni da parte dei cosiddetti teo-con, il no alla pena di morte o alla guerra non vengano mai inseriti fra le priorità, fra le “radici cristiane” da rivendicare. Questo porta a chiedersi se il vero obbiettivo degli autonominatisi difensori dell’ortodossia cristiana non sia in realtà una riscrittura in chiave revisionista del messaggio cristiano, una riscrittura che accantona le parti più autenticamente progressiste, se non addirittura rivoluzionarie, di quel messaggio, a favore di regole evidenziate a posteriori da gerarchie ecclesiastiche più interessate a mantenere il potere costituito che non a porlo in discussione. Un’azione che mi sembra non tanto, come si vuol far credere, rivolta ad esercitare direttamente una pressione sulla società, ma a vincere una prova di forza interna alle diverse anime del cattolicesimo, per esercitare successivamente quella pressione. In altre parole, mi sembra sia in atto una battaglia per l’egemonia culturale interna al mondo cattolico. Una battaglia che sfrutta un momento storico particolare che ha reso, all’interno di quel mondo, più flebile la voce della componente che possiamo chiamare progressista, rivitalizzando invece la voce dei teo-con”. Forse le sorti di questa battaglia interna al mondo cattolico (“interna” ma che, stante la società in cui viviamo, non riguarda solo i credenti, ma tutti noi) stanno cambiando…

- Vedere che nel lessico comune dei quotidiani, da ieri, “migranti” ha ripreso il posto di “clandestini” può non essere un grande risultato, se resta solitario. Ma è già qualcosa. Del resto, ammoniva Claudio Lolli, “la semantica o è violenza oppure è un'opinione”.

- Leggo che Magdi Allam e Cicchitto “rosicano” per la visita a Lampedusa. Questo risultato è sicuramente inferiore al precedente, e riguarda più me che i migranti. Ma, concedetemelo, la vita è fatta anche di piccole soddisfazioni…

Francesco “baro” Barilli



domenica 23 giugno 2013

Genova 2001-2013: non è un fatto di “reduci”…

In occasione di varie iniziative m’è capitato spesso di parlare del G8 di Genova come di uno spartiacque, come di un “fatto periodizzante”: uno di quelli che crea un prima e un dopo, nella memoria collettiva e nelle vite individuali di chi ne è rimasto colpito o – a qualunque livello – coinvolto. Ricordo una lunga chiacchierata con Stefano Tassinari (amico mai abbastanza rimpianto) in cui definivamo Genova un trauma, a cui ognuno ha reagito a proprio modo: un trauma per tutti, da cui si dipanano poi le matasse delle storie e delle sensibilità individuali.
Chi mi segue sa già che pure per me Genova è uno spartiacque. Nonostante fossi assente nel luglio 2001. Un’assenza non dovuta a una presa di distanza, ma non nascondo che a tenermi lontano dalle iniziative organizzate dal Genoa Social Forum non furono solo questioni familiari. In quel periodo avevo, se non abbandonato, accantonato l’impegno politico: guardavo con simpatia al “movimento dei movimenti”, vedevo il GSF come un interessantissimo laboratorio che andava a relazionare realtà diverse e tutte lodevoli, ma a 35 anni mi ero ritirato nel mio orticello, delegando ad altri battaglie che pure condividevo.
Tutto questo non lo dico con vanto, anzi, mi sento ancora in colpa se penso a quel “ritiro”. Un po’ perché in certi momenti (lo stiamo vedendo pure oggi, a diverse latitudini) protestare non è solo un diritto, ma un dovere, cui non ci si può sottrarre se non assumendo su se stessi colpe e conseguenze. Un po’ perché la mia generazione è quella del riflusso, su cui pesa la colpa d’aver favorito, nel migliore dei casi per colpevole apatia, il precipitare di molte conquiste, d’aver affossato speranze che proprio il popolo di Genova provò a riaccendere. La mia vita di scrittore e mediattivista è cominciata poco dopo il luglio 2001…
Ma vi ho annoiato fin troppo. E non vorrei che questo intervento fosse inteso come nostalgico, quasi che l’ormai vicina ricorrenza di luglio sia un fatto riguardante pochi “reduci” che, “laceri e stanchi”, ricordano le botte prese, le ingiustizie subite, le molte battaglie civili condotte dal luglio 2001 ad oggi (con un amaro bilancio in termini di risultati ottenuti). Non lo vorrei, dicevo, perché il punto è diverso.
I fatti di Genova sono una questione civile, democratica, che riguarda tutto il paese. Le questioni sollevate non interessano solo i “reduci” del 2001. L’omicidio di Carlo Giuliani; le torture di Bolzaneto; la negazione del diritto a manifestare e la criminalizzazione del dissenso; l’intimidazione cilena della Diaz; l’assenza nel nostro ordinamento giuridico del reato di tortura; la mancata riconoscibilità degli operatori di polizia in servizio di ordine pubblico (un inciso: recentemente Lorenzo Guadagnucci ha sottolineato giustamente che la polizia turca – certamente non un modello da assumere… – utilizza tali codici); l’atteggiamento di difesa corporativa delle forze dell’ordine e la loro copertura acritica da parte della politica… E tutto questo in un elenco tutt’altro che esaustivo.
Luciano Muhlbauer ha sintetizzato molto bene la questione. Per tutte queste ragioni essere a Genova è – sempre – importante. Lo è pure quest’anno.
Non è ancora disponibile il calendario completo delle iniziative; lo sarà senz’altro nei prossimi giorni (controllate i siti del Comitato Piazza Carlo Giuliani e del Comitato Verità e Giustizia per Genova).
Come ho detto, nel luglio 2001 non ero a Genova. Da allora non sono più mancato. Spero di trovare anche quest’anno tanti di voi.

Francesco “baro” Barilli

mercoledì 15 maggio 2013

“Eutanasia” significa esattamente “buona morte”

Anche questo articolo, come il precedente “Lungo nastro di catrame”, è scritto nella forma “lettera al direttore”, essendo indirizzato al quotidiano lodigiano “Il Cittadino”. Pure questo, al momento, non è stato pubblicato; come l’altro: non so se per scelta o per motivi di spazio. Ritenendo che anche questo possa essere interessante per qualcuno, lo pubblico di seguito.

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Caro direttore,
l’articolo di Emanuela Viani sull’eutanasia apparso su Il Cittadino l’11 maggio ha il merito di riportare all’attenzione un tema eticamente delicato e scomodo, ma l’autrice parte da un errore di fondo. Viani sostiene, in sostanza, che parlare di suicidio assistito o di dolce morte in luogo di eutanasia sarebbe un trucco semantico, utile per edulcorare il messaggio sotteso dal termine. Un trucco utilizzato perché (cito) “ecco che quella brutta cosa dell’eutanasia che evoca totalitarismi e soppressioni forzate, viene sostituita dalla dolcezza del “suicidio assistito”.
Viani cita Calvino e l’antilingua. Concordo in linea generale: le parole sono tutto fuorchè innocenti. E, ad onor del vero, prima di Calvino già l’allucinato e profetico “1984” di Orwell denunciava quanto la creazione di un neologismo potesse essere finalizzata ad edulcorare un concetto, tutt’altro che nuovo, inducendo un atteggiamento mentale positivo nella popolazione. Orwell parlava di tentativi di usare la semantica per deformare il pensiero; di una simmetrica relazione fra un messaggio rassicurante, affidato al termine, e un contenuto spaventoso, occultato nel suo significato: lo “svagocampo”, usato per definire l’inaccettabile “campo per lavori forzati”, per esempio. Anche i neologismi dell’ucronia orwelliana erano quindi “antilingua”, così come successivamente definita da Calvino.
Ciò che non dice Viani è che “eutanasia” deriva dal greco e significa LETTERALMENTE “buona morte”. Orwell e Calvino, dunque, non c’entrano proprio nulla. “Eutanasia” non deve evocare “totalitarismi e soppressioni forzate”, né in Viani né in nessuno, perché il suo significato è diverso. Anzi, se parliamo di eutanasia, proprio l’accostarla a “soppressioni forzate” costituisce un esempio di “antilingua”. Emanuela Viani sia più accorta nelle citazioni: possono rivelarsi un boomerang.
Vorrei infatti che fosse ben chiara una cosa. Il dibattito sul fine vita (dai casi Welby o Englaro in poi, ma a dire il vero anche prima) spesso risulta viziato, presentandolo come se qualcuno (lo Stato, i proponenti dei disegni di legge sull’argomento, tanto per dire) volesse imporre una propria visione etica secondo cui un soggetto che versa in certe condizioni “deve” essere “obbligato” alla morte. NON è così e NON deve essere così. A titolo personale sottolineo di avere la massima considerazione per chi vuole rifiutare l’eutanasia. Per chi, ad esempio, in nome di rispettabilissime convinzioni etico/religiose preferirebbe restare attaccato a una macchina (nella legittimissima speranza di un miracolo o anche solo perché ritiene l’eutanasia moralmente inaccettabile) piuttosto che terminare la propria vita. Dunque, nessuno deve temere che l’eutanasia possa essere imposta per diktat. Premesso questo, sia altrettanto chiaro che, attualmente, lo stato delle cose è ESATTAMENTE il contrario; ossia: la libera inclinazione etica di chi rifiuta l’eutanasia è garantita, mentre non lo è quella di chi vorrebbe mettere fine alle proprie sofferenze ricorrendo alla “buona morte”. L’eutanasia non deve essere un’imposizione, ma bensì una possibilità di scelta. Una possibilità attualmente negata: su questo, e non su altro, dovrebbe concentrarsi il dibattito.

Francesco “baro” Barilli

“Lungo nastro di catrame”

NOTA: Questo articolo è scritto nella forma “lettera al direttore”, essendo indirizzato al quotidiano lodigiano “Il Cittadino”. Per ora (il pezzo è dell’11 maggio) non è stato pubblicato. Non so se per scelta o per motivi di spazio (in questi giorni “l’area” delle lettere sul giornale è occupata prevalentemente da interventi sulle prossime elezioni comunali a Lodi). In ogni caso, visto che lo ritengo interessante, lo pubblico di seguito.

***

Caro direttore,
pochi giorni fa, in uno dei rari momenti in cui questa primavera bislacca si è voluta davvero concedere, un amico mi ha convinto a una lunga passeggiata. Risultato: una tendinite che ancora mi tormenta e l’amara consapevolezza del mio pietoso stato di forma. Ma non voglio tediare lei o i suoi lettori con i miei guai; torniamo dunque alla passeggiata.
Dopo la strada verso la Mulazzana, abbiamo girato a destra, imboccando il lungo rettilineo che sfocia sulla Provinciale Codogno/Cavacurta. Al surreale spettacolo di quella sorta di enorme pista ciclopedonale larga una ventina di metri, affollata di persone (per lo più ciclisti e appassionati di jogging, tutti più in forma di me…) ho cominciato a canticchiare fra me un pezzo di Guccini e i Nomadi: “Statale 17, lungo nastro di catrame, la gente bene dorme, sei deserta all'orizzonte. A quest'ora non c'è un cane che mi voglia prender su...”. L’amico mi ha spiegato trattarsi del nuovo tratto di Provinciale 234, il cui cantiere risente di problemi tecnico/burocratici, per le cattive condizioni atmosferiche dell’inverno e altre questioni con la ditta appaltatrice. “Ma non li leggi i giornali?!”, mi ha rimproverato (il rimbrotto penso possa farle piacere, direttore).
Ora, mescolando il vezzo letterario di un flash forward e una vera casualità, andiamo all’altro ieri. Quando, costretto dall’attesa al bar della piscina di Casale durante il corso di nuoto di mia figlia, ho recuperato la lettura de Il Cittadino degli ultimi giorni e – non s’adiri – anche de Il Giorno.
Nelle pagine dedicate al lodigiano, la mia vista è stata allietata da una presenza assai frequente: quella di Nancy Capezzera, assessore provinciale alla viabilità e trasporti. Ad onor del vero ho potuto ammirare anche il nuovo look dell’ex presidente Foroni. La rinuncia al gel (non ho capito se precedente o successiva a quella, “sofferta” secondo le sue parole, allo scranno provinciale in favore di quello regionale) e un taglio di capelli molto “ggiovane” (molto “Matteo Renzi”, ho pensato) gli dona.
Ma sto divagando, mi scusi. Torniamo a Capezzera, che dalle foto ho appreso essere parecchio incasinata per l’erba alta alle rotatorie, nonchè conscia delle problematiche della nuova “bretella”: in una foto appare (deliziosa, con elmetto da cantiere e giubbino giallo fluorescente) indicare compunta una mappa accanto a un tecnico, che non so identificare, ma che sembra pensare “sta succedendo proprio a me?”.
La mia mente è andata allora alla passeggiata di pochi giorni prima: fine del flash forward. Quegli incroci di pensieri che ogni tanto conducono le sinapsi lungo percorsi strani (strani quanto quella “strada che si sperde: sembra un letto di cemento”) mi hanno portato da Guccini a quel nome, Nancy, cantato dal mai troppo compianto De Andrè (ricorda, direttore? “Un po' di tempo fa Nancy era senza compagnia, all'ultimo spettacolo con la sua bigiotteria. Dicevamo che era libera e nessuno era sincero: non l'avremmo corteggiata mai nel palazzo del mistero”). Saprà, l’assessore, che poche decine di metri prima dell’incrocio con la Codogno/Cavacurta il “lungo nastro di catrame” delle nuova Provinciale è lacerato da un grave cedimento, in corrispondenza di un sottopassaggio? Non ho scattato fotografie, ma le posso assicurare che, indipendentemente dallo stallo in cui versa il cantiere, attualmente la provinciale in quel tratto non sarebbe percorribile, da autovetture o da mezzi più pesanti.
Mentre le scrivo, il mio stereo diffonde proprio i versi di De Andrè (“E nel vuoto della notte, quando hai freddo e sei perduto, è ancora Nancy che ti dice: amore, sono contenta che sei venuto”): istintivamente penso a Capezzera e mi tranquillizzo. Sono certo che, elmetto da cantiere e giubbino giallo fluorescente, saprà provvedere. “Ex Statale 234, com'è lunga da far tutta…”.
Però, direttore, accanto alla tranquillità c’è anche un po’ di tristezza. Il bailamme pre e post elettorale ha un po’ silenziato il dibattito sul destino delle amministrazioni provinciali. Il gel di Foroni ci ha lasciato da tempo, e ora anche il suo nuovo look è sbarcato a Milano. Il look di Capezzera è già un ricordo, sostituito da un castigato giubbetto giallo fluorescente. Cosa resterà dunque della provincia di Lodi (intesa come ente) quando le esigenze di spending review statali torneranno a farsi sentire, forse persino in termini più stringenti? “Ex Statale 234, com'è lunga da far tutta, romba svelto l'autotreno, questo cielo ancor sereno sembra esplodere d'estate, mentre tu chissà se pensi a me…”.

Francesco “baro” Barilli

mercoledì 1 maggio 2013

Due articoli de "Il Cittadino" su "Piazza della Loggia vol. 1"

 Ecco i due articoli che "Il Cittadino" (quotidiano del Lodigiano) ha dedicato alla presentazione di "Piazza della Loggia volume 1 - Non è di maggio", avvenuta lo scorso 19 aprile a Codogno.






lunedì 22 aprile 2013

Caro amico di destra…

… Non ti offendi se ti chiamo così, vero? Di destra, sei di destra, mica posso dire altro. E amico, in fondo (molto in fondo…) lo sei.
Ecco, lo sapevo, ti sei offeso. Senti, è inutile girarci attorno. Siamo diversi, non condividiamo un cazzo come “idea di mondo”. Però io lavoro qui, nella “padania” più profonda, da… ormai ho perso il conto… Facciamo 25 anni, va, non ho voglia di pensarci. Ti conosco da allora. E so che sei un buon diavolo.
Sì, so anche che pure tu sei contro le ingiustizie. Me ne sono accorto, quando ti parlavo. Ma voi siete fatti così, come il mio cane… Dai, non fare ancora l’incazzato. Intendevo che per il mio cane io sono un gradino sotto (forse sopra) Dio; però se arriva uno sconosciuto ad agitargli una salsiccia sotto il naso non capisce più niente e pensa solo ad ottenere la sospirata salamella. Voi, uguale: ti posso parlare di repressione, stragi, precarietà, di “un altro mondo possibile”… Ma se arriva uno a prometterti due punti meno di Irpef (o di togliere l’IMU, per dire…) parti per la tangente e buonanotte alle questioni di principio e ai diritti.
Ecco, vedi che mi dai ragione? Mica è un’offesa. Solo una constatazione. In fondo un po’ vi invidio: mai capito ’na cippa di tasse, io. Sarei un po’ meno al verde…
Adesso attacchi col “voi comunisti”, me l’aspettavo. Voi comunisti una minchia, scusa. Innanzitutto sono anarchico, non so quante volte l’ho detto. E non darmi del nipotino di Stalin, non provarci! Quelli come me Stalin li faceva fuori, in un modo o nell’altro. Quelli come te, sotto il baffone si sarebbero adattati benissimo. Ma il punto è un altro, sai? E’ che da quando lavoro qui non sai quante volte ho sentito, da gente come te, la parola comunismo, agitata come uno spauracchio. Cazzo, sembra che siamo vissuti per decenni nella dittatura del proletariato. Dovevo essere distratto, non me ne sono accorto…
Guarda, mi sembra che del comunismo abbia bisogno più la gente come te che non io. Per temerlo, per pensare a questo “sistema” come al “migliore dei mondi possibili”, perché altrimenti arrivano i cosacchi ad abbeverare i propri cavalli alla fontana in piazza, ad espropriarti la casa e a rubare la pensione a tua suocera.
Vuoi che te lo dica? Va bene, se ne hai bisogno lo faccio: il comunismo è stata una risposta – certamente sabotata, dall’esterno e da drammatici errori interni – ma “una risposta”, appunto. Probabilmente sbagliata, forse addirittura tragicamente sbagliata, ma una risposta. A un sistema criminale che ha saputo espandersi come un cancro non appena il comunismo stesso è caduto (chi ha festeggiato la caduta del muro, dai retta a me, lo ha fatto non in nome della libertà, ma pensando si trattasse della fine per la lotta di classe). Un sistema che ora, dopo averle devastate, sta prendendo le nostre vite. Come un cancro, appunto. Sì, mi ripeto, cosa devo farci se non mi capisci?
Sai, ho letto che persino il Time recentemente ha riconosciuto a Marx un ruolo profetico, per molti aspetti. Lui aveva capito che il capitalismo, al di là di promesse in cui solo gli asini e chi è in malafede possono credere, non produce ricchezza per tutti (“il libero mercato”, il “sogno americano”…), ma al contrario ha l’obbiettivo di concentrarla nelle mani di pochi. Adesso, mentre viviamo la più feroce crisi economica della storia recente, è evidente quanto il capitalismo, specie quello globalizzato e finanziario, causa disastri e tensioni sociali, allargando la forbice fra chi ha troppo e chi non ha abbastanza per vivere. E chi sta nel mezzo vede l’asticella della sopravvivenza dignitosa alzarsi: saranno sempre di più quelli che, anche fra questi ultimi, scivoleranno verso il basso… Ti dico di più: il capitalismo non si limita a produrle, le diseguaglianze sociali: SI BASA su quelle. No, non è lo stesso, c’è una bella differenza… Non ti sto ponendo il problema sul piano etico (quello a me interessa, a te mi piacerebbe interessasse, ma potrei persino capire il contrario), ma su quello pratico. Puoi anche fottertene delle ingiustizie sociali (contento te…) ma DEVI vedere il disastro che poi a catena producono.
Eeehhh, ecco la litania dei morti ammazzati! Vabbè, che non sono un nipotino di Stalin te l’ho detto ma non vuoi capirlo, quindi andiamo avanti come niente fosse. Per te non è importante, per te “quelli come me sono tutti uguali” (oddio, anch’io dico davvero che VOI siete tutti uguali? Hai ragione, touchè…). Comunque, scusa, la storia la fai col pallottoliere dei morti? Poi cosa fai, l’hit parade della dittature? Ridi, ridi pure, guarda che se vuoi giocare a quel gioco calo l’asso di briscola e ti dico: e il fanatismo religioso? Guarda, dall’alba dei tempi quello ha fatto più morti di tutte le dittature, di qualsiasi matrice, messe assieme. Eppure vengo a criticarti i fondamenti della fede? No, non lo faccio. Non credo che le crociate o i conquistadores spagnoli rappresentino il mondo della fede. E se ti ho parlato di conquistadores o di crociate non era per fare un discorso unilaterale. Questo almeno concedimelo: se parlo di fanatismo religioso lo faccio a 360 gradi.
I compagni, mi chiedi? Scusa, non volevo soffiarti il fumo in faccia. E’ che è un momentaccio e tu mi ci fai pensare…
Cosa vuoi che ti dica… Paul Eluard diceva “Ci sono parole che fanno vivere. Una di queste è la parola compagno”. Lo penso ancora. Però a volte mi sento come invece diceva Guccini, con “quattro soldi di messaggio da urlare in faccia a chi non lo raccoglie”. Di certe cose, di certi ideali, rimpiango la meraviglia; più di certe cose, più di certi ideali, rimpiango il non saper più provare meraviglia. Capisci?
Chi era Eluard, chi è Guccini, mi chiedi? Lascia stare: allora è troppo tardi per tutto. E lascia stare anche qui, il caffè te lo pago io…


martedì 16 aprile 2013

Piazza della Loggia volume 1 su Il Sole 24 Ore. E altro ancora...

Recupero (m'era sfuggita) una bella recensione al primo volume su Piazza della Loggia.
La rece è apparsa su Il Sole 24 Ore il 15 giugno 2012 ed è firmata da Boris Sollazzo, che ringrazio:
"Piazza della Loggia: se la verità ce la dice il fumetto"

Ne approfitto per segnalare la prossima presentazione:



mercoledì 10 aprile 2013

Federico Aldrovandi e una proposta “dimenticata”

Il recente presidio del sindacato di polizia Coisp a Ferrara, sotto il palazzo municipale dove lavora la madre di Federico, ha prodotto un “effetto boomerang”, riaccendendo i riflettori sulla vicenda. Una vicenda da tempo uscita dal perimetro locale, arrivata all’attenzione nazionale e diventata – giustamente – un simbolo dei molti (troppi) casi di “malapolizia”. Tutto questo, è bene ricordarlo, non certo grazie a percorsi autocritici delle forze dell’ordine (distintisi anche sul “caso Aldrovandi”, come già per il G8 di Genova, in un’autodifesa corporativa, spesso sconfinata in veri e propri ostacoli opposti alle indagini) ma bensì grazie al coraggio e alla determinazione di Patrizia e Lino, genitori di Federico, e di alcuni giornalisti/scrittori: Checchino Antonini, Dean Buletti, Alessio Spataro, Filippo Vendemmiati, per citarne alcuni.

Non mi soffermo sul presidio del Coisp, limitandomi a segnalare due fra gli articoli più interessanti apparsi sul fatto: “Il Coisp, Aldrovandi e il degrado dello spirito democratico in polizia” di Lorenzo Guadagnucci e “G8 di Genova e gas CS, le “parole” del Coisp prima di Aldrovandi” firmato da Marco Trotta. Lorenzo e Marco sono fra i pochi che, oltre a criticare l’iniziativa del Coisp, hanno allargato il discorso con riflessioni sullo “stato dell’arte” dei corpi di polizia dal G8 di Genova in poi. Mi soffermo invece su una riflessione “collaterale”.

La mia impressione è che, ogni qualvolta si affronta un caso in cui sono coinvolte le forze dell’ordine, ci sia la tendenza a polverizzare la discussione in mille rivoli, fino a perdere di vista alcuni elementi essenziali. Patrizia e Lino sono sempre riusciti a “tenere dritta la barra” (altro loro grande merito). E’ anche grazie a loro se sul caso di Federico possiamo sottolineare alcune cose che solo un osservatore distratto può ritenere marginali nel “caso Aldrovandi”:

- La battaglia per l’introduzione di un codice di riconoscimento per gli agenti in servizio di ordine pubblico;

- La necessità di introdurre il reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico (in special modo come fattispecie di reato specifico per appartenenti a forze di polizia);

- La necessità di sospensione immediata degli agenti rinviati a giudizio o sotto inchiesta. Inoltre, almeno per alcuni “tipi” di reato commessi da uomini in divisa, all’acquisizione di una sentenza definitiva di condanna deve essere prevista non la sospensione temporanea dal servizio, ma la radiazione. (sottolineo questo punto perché, secondo voci riportate su popoff – qui – gli agenti condannati a 3 anni e 6 mesi per l’uccisione di Aldro potrebbero essere reintegrati in servizio all’inizio del 2014).

Di istanze ce ne sarebbero altre, ne ho citato solo alcune. Tutte portate all’attenzione della politica da diversi comitati/associazioni (già subito dopo Genova 2001 e reiterate successivamente, senza alcun effetto). Per dare un’idea di questa reiterazione basti pensare alla petizione “mai più come al G8” (2003), a “le richieste di Reti-Invisibili ai candidati alle primarie dell'Unione” (2005), a “la verità è rivoluzionaria” (2013, in occasione delle ultime elezioni politiche), ai ripetuti appelli di Amnesty International… Sicuramente altre realtà e altri appelli mi sfuggono: me ne scuso, ma il senso di questo articolo va al di là di un’elencazione più completa.

Tutte queste istanze tendono a due obbiettivi, entrambi importanti e in stretta relazione fra loro: scongiurare che i reati commessi dalle forze dell’ordine restino impuniti (o vengano sanzionati scarsamente); assicurare che casi atroci come quello di Ferrara non abbiano a ripetersi.
E’ chiaro che solo l’ottenimento di entrambi gli obbiettivi garantisce risultati pratici. Per fare un esempio banale, introdurre il reato di tortura garantisce che certi comportamenti vengano sanzionati, ma non li previene, se non per un generico “effetto deterrente” (effetto che – sia chiaro – ritengo assai blando, per usare un eufemismo, in questo come in altri casi); specularmente, fare di tutto perché la tortura non avvenga è meritevole, ma insufficiente se non si prevedono serie sanzioni e una reale applicabilità delle stesse.

Per questo credo che, accanto alle altre istanze già citate (tutte da me condivise e, allo stato, purtroppo disattese) ce se sia una fondamentale e dimenticata, presente nella già menzionata petizione “mai più come al G8”: “programmare un costante aggiornamento professionale delle forze dell’ordine ed attività didattiche finalizzate a promuovere i principi della nonviolenza, una coscienza civica e una deontologia professionale conformi alle loro funzioni difensive e nonviolente”.

Purtroppo sembra che ultimamente il dibattito si sia avvitato sull’eventualità che ai 4 condannati per la morte di Aldrovandi siano o meno concessi i domiciliari. Una polemica simile sta emergendo per quanto concerne i funzionari condannati per la scuola Diaz: è ormai imminenti il giudizio che disporrà se questi soggetti andranno in carcere o usufruiranno delle pene alternative.

Sia chiaro, in un paese dove esistono i CIE, dove poveri cristi marciscono in galera per la Bossi/Fini o la Fini/Giovanardi, non è certo il senso di pietà a farmi dire quel che segue: considero la battaglia per far andare/rimanere in carcere i condannati per i processi Diaz o Aldrovandi una battaglia “di retroguardia”. Nel senso che non piangerò certo se le porte del carcere dovessero accogliere (o mantenere dentro) i condannati. E il mio commento non è per nulla “moderato”: semplicemente non mi sentirei risarcito (o garantito per il futuro) dalla sola certezza di una pena detentiva.

Provo a spiegarmi con un altro esempio. Ammettiamo che davvero i 4 poliziotti ferraresi per cui si è mosso il Coisp restino in carcere e quelli condannati per la Diaz vi entrino. E ammettiamo, però, che nessuna delle nostre altre istanze (reato di tortura, riconoscibilità degli agenti ecc) sia accolta, magari con la “ciliegina sulla torta” di vedere in futuro questi soggetti reintegrati in servizio. Potremmo davvero parlare di una vittoria?

Credo sia ora di pensare in altri termini. Lorenzo Guadagnucci, nel suo pezzo citato all’inizio, ha scritto: “liquidare questa vicenda come un caso isolato di estremismo sarebbe un grave errore. Il caso è semmai una spia del brodo di coltura nel quale il sindacato Coisp è nato e cresciuto: un contesto nel quale i valori che ispirarono la smilitarizzazione della polizia di stato (1981) e la sua apertura alla società sono un ricordo più che sbiadito. … La terribile vicenda di Genova G8, invece d'essere l'occasione per un'autocritica e l'avvio di un'inversione di tendenza, è stata usata per accentuare la chiusura corporativa e ingaggiare una prova di forza coi poteri elettivi, per affermare cioè un'indipendenza che va ben oltre la lettera e la prassi della Costituzione. … La sentenza (sulla Diaz, ndr) è arrivata nonostante il pervicace tentativo della polizia di stato, ossia del suo vertice, di ostacolare il corso della giustizia, sia sul piano pratico con il boicottaggio dell'inchiesta, sia su quello politico e simbolico con le promozioni degli imputati e la loro conferma anche dopo le sentenze di condanna di secondo grado. … Si è tollerato e ammesso di tutto. Le bravate passate e presenti del Coisp, ma anche i tentativi di manipolare i processi e soprattutto si è permessa la permanenza in servizio di agenti e funzionari responsabili di abusi e falsi con la pericolosa "scusa" che è compito della magistratura l'accertamento dei reati (ma è compito della polizia punire chi sbaglia e prevenire ulteriori abusi!)”.
Quello di Lorenzo è un ragionamento, come sempre, lucidissimo. E che voglio provare a estremizzare e brutalizzare: il problema – oggi – non sta più “solo” nella certezza (certamente ben più che auspicabile!) che i reati commessi dalle forze dell’ordine vengano seriamente sanzionati: sta nel fatto che in polizia certi soggetti non dovrebbero essere nemmeno ammessi; o, perlomeno, si dovrebbe contare su metodi di reclutamento nuovi, finalizzati all’accertamento di requisiti deontologici e civici (da monitorare successivamente, nel corso del servizio…). In altre parole, il mio problema non sono le “mele marce” (indipendentemente dal fatto che a mio avviso la formula “mele marce” è errata e fuorviante), ma chi dovrebbe controllare il cesto delle mele (o il frutteto, se preferite) e invece accoglie di tutto, salvo affermare poi “… ma il cesto in sostanza è sano”…

Per questo ritengo fondamentale tornare a parlare dei principi di reclutamento delle forze dell’ordine. Ritengo che solo in questo modo si possano gettare le basi affinchè “casi come quelli di Federico non avvengano più”, formula condivisibilissima ma che ormai suona retorica, al di là delle intenzioni e della buona fede di chi la pronuncia.

Francesco “baro” Barilli