martedì 27 marzo 2012

“Romanzo di una strage”: il mio giudizio

Ieri sera ero alla prima di “Romanzo di una strage”: ci sono molte cose da dire, per cui riduco il preambolo al necessario.
Darò il mio giudizio in appunti sparsi. I primi sono sul film in sé. Non sono un grande intenditore di cinema, per cui le mie valutazioni su questo aspetto non sono una recensione artistica, ma semplici impressioni personali da spettatore.
I secondi – che più m’interessano – sono sui contenuti. Chi segue il mio blog e ha letto un paio d’anni fa lo “scambio d’opinioni” fra me e Paolo Cucchiarelli (autore de “Il segreto di Piazza Fontana”, libro a cui è ispirato il film) sa che mi sono accostato al film con molti dubbi. Sa anche che ho promesso di NON tornare su quella polemica; una promessa che rispetterò: quindi tutti i contenuti che seguono sono relativi SOLO ED ESCLUSIVAMENTE al lavoro di Marco Tullio Giordana. E devo ammettere che proprio Giordana mi facilita nel compito di non riaprire la discussione circa il libro di Cucchiarelli. “Romanzo di una strage” attinge dal libro, ma lo fa con molta libertà. Questo, indirettamente, è il primo apprezzamento che posso fare a Giordana; ce ne saranno altri, ma pure qualche critica…

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Passiamo agli “appunti sparsi”. I primi, come accennato, sono puramente artistici. E, lo dico subito, ferma restando la mia limitata competenza cinematografica, i meriti sono superiori ai difetti.

La scena dell’esplosione è terribile ed emozionante. Qualcuno dirà che creare “tensione narrativa” in immagini del genere non era poi difficile. E’ vero solo in parte: a me ha colpito la drammaticità degli attimi successivi, e contemporaneamente la grande delicatezza con cui vengono affrontati. Il silenzio, la gente che non si capacita subito di quanto successo... Un “bravo” particolare a Giordana per aver evitato di caricare la scena con elementi raccapriccianti o pietistici: non ci sono urla, pianti, ma solo il peso incombente di una tragedia le cui dimensioni si fanno chiare poco a poco.

Gli attori sono convincenti. Avevo sentito grandi complimenti per Favino/Pinelli: meritati, ma Mastandrea/Calabresi forse è ancor più bravo. E alcune parti “minori” (“minori” solo nel senso che la loro presenza sullo schermo è quantitativamente inferiore) sono addirittura meglio:  ad esempio, Michela Cescon con pochissime battute dà l’idea dell’enorme spessore umano di Licia Pinelli. Peraltro devo dire che l’apprezzamento, in questo campo, non va solo agli attori, ma proprio a Giordana. Il “suo” Freda appare in poche sequenze, ma bastano a tratteggiare il personaggio, la personalità, l’alone inquietante che lo caratterizza.

Fermo restando il giudizio positivo, un paio di pecche sul piano “recitativo” (di cui, è bene ribadirlo, non sono un intenditore) ci sono.

La prima è quella più importante. E a dire il vero è più “di contenuto” che non “formale”, quindi più grave… Valpreda è dipinto come una macchietta, per non dire peggio. Anch’io di Valpreda scrissi (nei redazionali del fumetto firmato da me e Matteo Fenoglio): “Corre l’obbligo di sottolineare che sicuramente in gioventù l’anarchico milanese ebbe frequentazioni e posizioni discutibili. Ad esempio, Adriano Sofri, nel suo La notte che Pinelli (Sellerio, 2009) ricorda i difficili rapporti tra Valpreda e Pinelli (quest’ultimo contrassegnato da una consapevolezza politica più matura e lontana dagli eccessi del primo)”; ma aggiungevo pure “Tutto questo nulla toglie all’ingiusta odissea, umana e giudiziaria, cui fu sottoposto Pietro Valpreda”.
Intendo dire che, indipendentemente da altre considerazioni, non si deve dimenticare che Valpreda è “un innocente, accusato ingiustamente” (così sintetizzammo nel fumetto), uno che ha visto la propria vita stravolta e rovinata, facendosi anni di galera per un reato non commesso: meritava più attenzione e rispetto..

Altra nota dolente è Aldo Moro. L’interprete è un attore di grande spessore (Gifuni): non mi passa neanche per l’anticamera del cervello discuterne bravura o professionalità; ma il risultato a tratti è caricaturale. Credo si tratti, in parte, di esigenze cinematografiche: la matassa di avvenimenti che si dipana “verso” e “da” Piazza Fontana è ricca, terribile e ingarbugliata; rende inevitabile qualche semplificazione ANCHE nel campo delle relazioni politiche dell’epoca. I colloqui fra Moro e Saragat, però, sono un po’ troppo didascalici e “scolastici”, anche tenendo conto del limite oggettivo detto prima. Pure nell’esprimere il proprio tormento umano il “Moro/Gifuni” dà l’impressione, più che del tormento, di un certo imbarazzo.

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Veniamo ora agli appunti sul contenuto. Anche in questo campo a mia opinione quelli positivi sono superiori ai negativi; ma quelli negativi pesano…
Il film ha il grosso merito di dipingere personaggi tridimensionali, senza aver paura di mostrare anche le loro “pecche”. Prima di entrare nel dettaglio, una nota essenziale: le descrizioni che seguono riguardano esclusivamente “il narrato” del film, che NON necessariamente coincide con le mie convinzioni circa “l’aderenza al reale” di alcune ricostruzioni.

Di Pinelli viene restituita la dignità e la statura morale; ma non si nasconde la sua reticenza nel tacere l’incontro con un personaggio ambiguo, nonché compromesso e compromettente, come Sottosanti (una reticenza, sia chiaro, assolutamente comprensibile).

Calabresi è “l’eroe”, nella ricostruzione del film. Ma non se ne tacciono i silenzi e le ambiguità, specie relativamente alla famosa conferenza stampa della notte fra il 15 e il 16 dicembre, subito seguente la caduta di Pinelli. Silenzi e ambiguità che semplicemente vengono addebitate a scelte (scellerate e tutt’altro che in buona fede) dei suoi superiori, Guida e Allegra, a cui il giovane commissario non ha la prontezza o il coraggio d’opporsi. Analogamente, il regista non nasconde l’indecente decisione di non avvertire tempestivamente Licia della caduta del marito (sarà avvertita solo dai giornalisti, mentre Pino è in condizioni disperate al Fatebenefratelli), scelta che anche in questo caso sembra ricadere sui superiori del commissario; a Calabresi resta il peso della risposta alla vedova (“perché non m’avete avvertita?”; “signora, qui siamo tutti molto impegnati”, citando a memoria) che però avviene in un momento di concitazione e sempre come conseguenza diretta della gestione Guida/Allegra.

Dei difetti “estetici” nella rappresentazione di Moro ho già detto. Nella sostanza, si tratta di un personaggio dipinto come fermo oppositore di ogni deriva antidemocratica. Nonostante questo, è proprio lui – sempre nella ricostruzione di Giordana – a insabbiare per primo la ricerca della verità, seppure per “superiori ragioni del Paese”. In sintesi: Moro lavora affinchè non sia dichiarato lo stato d’emergenza e non vengano ristrette le garanzie costituzionali; ma nel contempo offre a Saragat il silenzio sulle sue conclusioni, che già a fine dicembre 1969 lo avrebbero portato a capire non solo la matrice fascista della strage, ma pure le connivenze all’interno degli apparati dello stato. Moro sembra ritenere che il Paese “non possa reggere” alla rivelazione della verità, e per questo (“anche” per questo) sceglie il silenzio.

La morte di Pinelli merita qualche premessa.
1. Sull’argomento fatico a essere obbiettivo, visto l’affetto che mi lega a Licia, Claudia e Silvia. E visto l’interesse personale che ho sempre avuto per il “caso Pinelli”.
2. Parlare della morte del ferroviere anarchico (questa è una postilla che vale per molti degli argomenti trattati nel film) significa muoversi in un campo minato. Indipendentemente dalle proprie convinzioni, e dagli elementi che le supportano, si ha a che fare con esiti storici e processuali che fissano paletti precisi, oltre i quali c’è non tanto il pericolo quanto la certezza di pesanti denunce. Certo, si potrebbe obbiettare che un artista può scalzare i paletti e scrivere liberamente “la verità di cui è intimamente convinto”, ma si sconfinerebbe nell’accademia (non credo esista un editore/produttore che pubblicherebbe un libro/un film in cui sia certo l’esito di una denuncia per diffamazione). Ma atteniamoci ai fatti: lo si condivida o meno, Giordana ha preso atto dei “paletti”, scegliendo di muoversi al loro interno; nel caso della morte di Pinelli l’ha fatto con serietà e una buona dose di coraggio.

Premesso questo: nel film è resa efficacemente la pressione indecente esercitata nei confronti di Pinelli. Viene denunciato il suo fermo, già protrattosi oltre i limiti di legge al momento dell’ultimo e fatale interrogatorio. Viene formulata in modo chiaro e deciso l’ipotesi che si voglia “incastrare” l’anarchico, per chiudere in fretta il caso e realizzare un comodo “pacchetto di colpevoli” tutto interno al mondo dell’anarchia (fra l’ambiente milanese di Pinelli e quello romano di Valpreda – che, ricordo, all’epoca dei fatti militava nel circolo “22 marzo” di Roma). Gli attimi fatali della caduta non sono mostrati (alla luce delle scelte esposte in premessa NON poteva essere altrimenti) ma le responsabilità degli agenti (in particolare di Panessa) nel film sono ben più che adombrate.
Circa l’annosa questione della presenza o meno di Calabresi nella stanza, Giordana dà una propria lettura che regge il “vaglio del plausibile” (il “vaglio del reale” è altra faccenda: mi dilungherei troppo, e non è il caso d’affrontarla, avendone scritto più volte in passato), tentando anche la quadratura del cerchio fra l’uscita dalla stanza del Commissario e la testimonianza di Valitutti (compagno anarchico che sostenne di non aver visto Calabresi uscire dalla sua stanza prima della tragedia, confermando sempre questa versione). Nella ricostruzione di Giordana, Calabresi esce dalla stanza, ma Valitutti può non averlo notato.
Insomma: in sostanza sulla morte di Pinelli Giordana ha fatto un lavoro egregio, tenuto conto dei limiti all’interno dei quali ha scelto di muoversi.

Veniamo ora alla famosa/famigerata teoria della “doppia bomba”, che tanto ha messo in allarme (anche) me.

(AVVERTENZA: SE PROSEGUITE NELLA LETTURA AVRETE ANTICIPAZIONI CIRCA IL FINALE DEL FILM)

Letta l’avvertenza???? Bene, allora proseguiamo…

Devo ammettere d’aver fatto un salto sulla poltroncina negli ultimi dieci minuti del film. E di essere rimasto con la sensazione “questa scena DEVO rivederla…”.
Perché la sorpresa, fermo restando che DAVVERO la scena finale sarebbe da rivedere con più calma, è grossa…

La teoria, che ho controbattuto in passato, della “bomba rossa” (un ordigno sostanzialmente innocuo, la cui esplosione sarebbe stata fissata a banca chiusa e depositata da Valpreda) “raddoppiata”, a insaputa di Valpreda, dalla “bomba nera” che diventa vera causa della strage purtroppo nel film c’è. Ma SEMBRA essere solo un’ipotesi investigativa a cui stava lavorando Calabresi prima di essere ucciso. Un’ipotesi a cui il commissario credeva, ma doveva ancora riscontrare compiutamente (sia chiaro: sto sempre e solo riportando quanto presente nel film).
Calabresi confida la propria ipotesi in un lungo e serrato colloquio con “un prefetto” (senza nome, ma la cui identificazione è pacifica in Federico Umberto D'Amato dell'ufficio affari riservati). D’Amato risponde in modo sibillino: e se Valpreda non c’entrasse nulla? E se le bombe fossero state davvero due, ma entrambe “nere”, una posata da uno dei possibili “sosia di Valpreda” (per incastrare l’anarchico) e “quella vera” dagli stragisti veri e propri (ossia: una “nera e basta” e una “nera dei servizi”, senza nessun coinvolgimento degli anarchici)?

Dopo questa scena, il film si chiude con l’uccisione di Calabresi. Nulla di più viene detto/mostrato, ma nello spettatore si insinua il dubbio che Calabresi sia stato eliminato in quanto ormai “scomodo” per lo Stato e troppo vicino alla verità.

Nel primo articolo scritto con Saverio Ferrari sul libro di Cucchiarelli dicemmo chiaramente che alla doppia bomba NON credevamo. Un giudizio che confermo, anche se ammetto che l’ipotesi “due bombe, entrambe nere” meriterebbe un approfondimento, anche per considerazioni che proprio io e Saverio scrivemmo in quell’articolo: “Considerazioni a parte sono invece dovute a un altro particolare che Cucchiarelli evidenzia nel libro: il ritrovamento di un pezzo di miccia, menzionato nella fase iniziale delle indagini e poi inspiegabilmente uscito di scena, che fa pensare a un ordigno il cui innesco fosse di tipologia diverso da quello ormai consolidato nella storia di Piazza Fontana (ossia: un innesco a miccia in luogo del famoso timer). Questo particolare è forse il più rilevante fra quelli apparsi nella prima e più interessante parte del volume, nonché difficile da controdedurre. Resta però un elemento solitario, da solo insufficiente per avallare ricostruzioni alternative a quella che la Magistratura ha già puntualmente descritto, pur senza arrivare a responsabilità personali”.

Ribadisco: la scena è troppo importante. Dovrei rivederla per maturare un vero giudizio (che, allo stato e su questo punto, non è positivo).

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Il mio giudizio complessivo…
Non cercate in “Romanzo di una strage” il film perfetto e definitivo su Piazza Fontana. Ma sappiate che quello è probabilmente impossibile da realizzare. Le vicende sono troppe, si intrecciano formando nodi inestricabili. Non consentono una narrazione complessa (troppo lunga e dispersiva; richiederebbe un’opera totalmente estranea alla lunghezza e alla “forma classica” di un film); e rendono difficile una narrazione sintetica (troppe cose si sarebbe costretti a lasciare fuori). Inoltre, sono molteplici e variegate le sensibilità toccate dalla vicenda e dal suo successivo dipanarsi: impossibile trattare tutte con uguale accortezza.
Credo che chiunque abbia lavorato seriamente su Piazza Fontana (magistrati o scrittori; giornalisti o storici che siano) possa trovare dei difetti nel film di Giordana; se lo spettatore è invece, più semplicemente, “un cittadino che vuole sapere” (e in fondo proprio a lui è indirizzato il film) “Romanzo di una strage” può essere un buon inizio. Fa quel che deve fare un film (o un libro): non “regala la verità”, ma fa riflettere. Offre un quadro in cui nitidamente emergono le responsabilità della destra eversiva, le connivenze dello Stato, il senso d’impotenza per una giustizia negata da più di quarant’anni. Forse ci si poteva fermare lì.

Francesco “baro” Barilli

giovedì 22 marzo 2012

"Piazza della Loggia volume 1": l'anticipazione su Corriere Brescia

Marco Toresini (che ringrazio) sul Corriere (inserto edizione Brescia) dedica un bel pezzo, con tanto di preview di alcune tavole, a "Piazza della Loggia. Volume 1: Non è di maggio", ossia al primo di due volumi che io e Matteo Fenoglio abbiamo dedicato alla strage di Brescia (28 maggio 1974, 8 morti e più di cento feriti).
Nei prossimi giorni pubblicherò qualche altra anticipazione. Per ora date un'occhiata al sito di BeccoGiallo (preciso che la cover è provvisoria).

A ONOR DEL VERO. Piazza Fontana. E la vita dopo

Segnalo con piacere questo libro: “A ONOR DEL VERO. Piazza Fontana. E la vita dopo. Giovani in dialogo con Francesca e Paolo Dendena, Carlo Arnoldi, Licia Pinelli e Gemma Calabresi”. La prefazione è di Giovanni Bianconi, caporedattore del Corriere della Sera.
Il libro è dedicato alla memoria di Francesca Dendena, storica presidente dell’associazione familiari vittime di Piazza Fontana, scomparsa il 6 ottobre 2010. Oggi l’associazione è presieduta da Carlo Arnoldi.

Casa Editrice IL MARGINE, euro 15,00

Migliori informazioni qui


venerdì 16 marzo 2012

Qualche precisazione sull’anteprima di “Romanzo di una strage” (film di Marco Tullio Giordana su Piazza Fontana)

Carlo Arnoldi è il Presidente dell’Associazione Piazza Fontana 12 dicembre 1969. E’, soprattutto, un amico e una persona a cui porto il massimo rispetto. Lo sa lui e lo sanno quelli che mi seguono su questo spazio e che hanno letto il fumetto mio e di Matteo Fenoglio “Piazza Fontana”.

Carlo mi scrive per conoscenza una lettera, e mi chiede di pubblicarla, a seguito di una “polemica” (forse più che altro un’incomprensione) nata in previsione dell’ormai imminente anteprima di "Romanzo di una Strage": si tratta del film di Marco Tullio Giordana sulla strage del 12 dicembre 1969, su Pinelli e Calabresi, e più in generale – da quanto si è capito dalle anticipazioni – sul tragico periodo che va per l’appunto da Piazza Fontana all’omicidio Calabresi.

Dunque è nata “un’incomprensione” fra Giorgio Boatti e Carlo Arnoldi. Si tratta di una cosa che (ne sono certo, visto lo spessore umano dei due, e vista la stima che intercorre anche fra loro) non lascerà strascichi; ma che comunque NON E’ un “dialogo privato”, visto che riguarda una delle pagine più drammatiche della nostra storia. INFATTI Giorgio ha pubblicato sulla sua pagina facebook il suo punto di vista e altrettanto, tramite me, fa Carlo. Peraltro, sono stato coinvolto nella vicenda, per cui è doverosa anche una mia spiegazione.

Riporto di seguito cronologicamente lo scambio epistolare fra Boatti e Arnoldi. A seguire le mie precisazioni.

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BOATTI AD ARNOLDI:

Caro Carlo,
            Ho visto che il film “Romanzo di una strage” va nelle sale dal 30 marzo: ti ringrazio dunque  ma consentimi di ripensarci e declinare il tuo gentile invito a essere presente alla prima del film.
            Lo vedrò quando sarà in distribuzione e lo valuterò per quel che dice e vale.
            La prima di un film è  sempre in funzione della promozione di un’opera.
            Per adesso di “romanzo di una strage” so che attinge al libro di Cucchiarelli, un testo pieno di contraddizioni  che non aiutano a chiarire e a far conoscere anche alle nuove generazioni il reale andamento dei fatti in quel tragico 12 dicembre.
            In aggiunta la pubblicità del film -  almeno  così come l’ho vista ieri in rete, poi da oggi è scomparsa - alternava questi due moduli:


            Uno dice
            "La bomba di piazza Fontana ce l'hanno messa i rossi? Piazza Fontana. La verità esiste."

            L'altro afferma:
            "La bomba di piazza Fontana ce l'hanno messa i fascisti?
            Piazza Fontana. La verità esiste."


            A te sembra un modo serio per affrontare i nodi della strage? A me sembra un modo un po’ ruffianesco di inseguire il pubblico all’insegna de “la meglio bomba”. A quando i telesondaggi per decidere quando rossa, nera o grigia fosse la strage?
            A me questo modo di procedere non piace. Anzi, per dirla francamente, mi repelle. Dunque non vedo perché dovrei concedere fiducia preventiva a un’operazione che mi lascia, come minimo, molto dubbioso.
            Capisco che i realizzatori di “Romanzo di una strage” abbiano  tutto l’interesse a coinvolgere  parenti delle vittime e studiosi che ne hanno scritto in modo obiettivo e con conclusioni assai diverse da quelle di un Cucchiarelli. Non capisco invece perché, alla luce di quanto sta emergendo, da parte di questi ultimi ci si debba prestare a questa operazione.
            Scusa la franchezza ma in una vicenda così è d’obbligo.

            Un caro saluto,

            Giorgio Boatti

            Autore di “Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta”,
            Einaudi tascabili

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ARNOLDI A BOATTI:

Caro Giorgio

        le tue considerazioni sulla mancata  presenza alla prima del film "Romanzo di una Strage" non mi piaciono e non mi convincono, in quanto tu prendi per partito preso tutto quello che giustamente hai letto del libro di Cucchiarelli, mai io personalemnte e tutti i famigliari delle Vittime di Piazza Fontana non vogliono essere strumentalizati dopo oltre 40 anni di dolori e passioni passati alla ricerca di una giustizia mai avuta e di una verità storica ben precisa dove nell'ultimo processo del 2005 si conferma la matrice nera di Ordine Nuovo di Padova e indica in Freda e Ventura i colpevoli non più processabili perchè precedentemente assolti, quindi come Associazione è da anni che portiamo avanti la battaglia oltre a non dimenticare ma anche quella di far conoscere almeno la verità storica sulla strage ai giovani e alle future generazioni.

        Ora dopo tutti questi anni finalmente, dopo diversi libri e qualche documentario, finalmente un regista coraggioso e che reputo anche molto bravo e sensibile come Marco Tullio Giordana (che abbiamo incontrato per capire anche noi come voleva impostare il lavoro, prima, durante e dopo la registrazione), riesce a fare un Film sulla strage prendendo si i diritti del libro di Cucchiarelli ma non replicando praticamente nulla di quello che nel libro viene praticamente romanzato senza prove ,....... bene io e la mia Associazione questo lo riteniamo molto importante e se come affermi tu ci saranno delle incongruenze saremo i primi a protestare, ma se permetti prima vogliamo vedere il film e poi se è il caso criticarlo e prenderne le distanze, oppure applaudirlo e farne per noi un'altro tassello che ci possa aiutare a far conoscere la verità storica per cui da anni ci battiamo, visto che quella giudiziaria per ora non ci è stata data.

        Mi spiace molto che tu  non abbia accettato il mio invito ma mi auguro che a presto magari dopo che hai visto il film ci sia tra di noi un incontro  per discuterne e confrontarci.

        Con affetto

                                  Carlo Arnoldi

        Presidente Associazione Piazza Fontana 12 dicembre 1969

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Ora, la mia opinione.

Io andrò alla “prima” (ne approfitto per ringraziare Carlo dell’invito); e se non ci andrò sarà per casini di tempo, non per altri motivi. Ritengo, infatti, che la "prima" non sia solo e semplicemente un evento in funzione della promozione. O, per meglio dire: sì, la "prima" è inevitabilmente una "vetrina"; ma ciò non toglie sia anche l'occasione in cui uno vede il film "con mente aperta", per giudicarlo (e - se sarà il caso - criticarlo) successivamente. In sostanza: la presenza all’anteprima NON significa un'adesione totale ed acritica al film.
Preciso però che, leggendo la lettera di Giorgio, continuo a pensare che la sua critica fosse per il "come" è stato realizzato il battage pubblicitario; un modo che pure io ho trovato assai discutibile. Certo, le strategie pubblicitarie del film non dipendono da Giordana, ma ciò non toglie che, istintivamente, Boatti abbia sentito (e io con lui) "puzza di bruciato". Forse un'impressione errata, ma di certo non irragionevole.

Boatti si sofferma inoltre sul fatto che il film sia ispirato al libro di Cucchiarelli. Su questo mi limito a riportare quanto ho già scritto su facebook:

Preciso, per quelli che avranno letto (ormai 3 anni fa) lo "scambio di idee" fra me e Paolo Cucchiarelli in relazione al suo libro, che in occasione del film non ci saranno repliche: "Barilli vs Cucchiarelli 2 - la vendetta" non è un film in programmazione, fatevi bastare Giordana. Non ci saranno altri miei commenti sull'argomento; nè in pubblico nè in privato.

Quelli che proprio sono interessati (e non hanno di meglio da fare…) possono leggere il “vecchio scambio Barilli-Cucchiarelli” (il primo pezzo è firmato, oltre che da me, da Saverio Ferrari) ai links seguenti (in ordine cronologico):

PARTE 1
PARTE 2
PARTE 3
PARTE 4
PARTE 5

Francesco “baro” Barilli

mercoledì 14 marzo 2012

Lettera aperta a Paolo Persichetti: “legittimo criticarlo, ma Giannuli non è un cialtrone”

[NOTA IMPORTANTE: Paolo, solo DOPO aver scritto questa lettera stasera sul mio blog ho visto che oggi su Facebook hai già anticipato – sensatamente – alcune mie obiezioni. Quindi leggi questa mia sapendo che è PRECEDENTE a quel tuo commento]

Caro Paolo,

come ti ho accennato via Facebook non condivido il tuo articolo “Miseria della storia: quel cialtrone di Aldo Giannuli”, nel merito e neppure nel tono. Questa lettera, te lo dico subito, sarà piuttosto lunga; conterrà anche elementi ridondanti, ma che ho ritenuto d’inserire perché l’argomento è di interesse comune, e non credo che tutti quelli che la leggeranno siano a conoscenza di certi dettagli.
Innanzitutto gioco a carte scoperte: sì, conosco Aldo. Mi girò il suo contatto Franca Dendena (storica presidente dell’associazione familiari vittime di Piazza Fontana, purtroppo scomparsa il 6 ottobre 2010) quando stavo scrivendo il fumetto su Piazza Fontana (era il gennaio 2009 o giù di lì); proprio Giannuli firmò poi la prefazione a quel lavoro. In seguito siamo rimasti in contatto, seppure saltuariamente: sto lavorando su un nuovo fumetto su Piazza della Loggia (e più in generale sul “quinquennio nero” 69/74) che nel primo volume conterrà anche un’intervista a Giannuli. Però i contatti fra me e Aldo sono limitati a quanto mi interessa del periodo 69/74: non ho mai parlato con lui di BR o “caso Moro”, e il libro su cui tu ti soffermi, “Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro”, per ora l’ho letto solo per la prima parte (m’interessava nell’ottica: rapporti fra “noto servizio” e strage di Piazza Loggia), mentre non ho approfondito la sezione sulle BR. Ho letto “le 18 domande” che Giannuli scrive in coda al suo libro per poter capire quanto hai scritto e risponderti.
Dunque non ti nascondo nulla della mia conoscenza con Giannuli: è né più né meno di quella che ho descritto; non è l’elemento che mi spinge a scriverti; e neppure rispondo “per conto terzi”: Giannuli se vorrà ti risponderà, non è affar mio.

Ti ho detto prima che non condivido il tuo pezzo (né le risposte formulate dal dott. Clementi alle 18 domande alle BR; su queste tornerò più avanti) nel merito e nel tono. Parto dal secondo aspetto, forse il meno importante.
Te l’ho già accennato personalmente: ho letto altri tuoi scritti e li ho apprezzati sinceramente (e circa l’argomento “torture ai militanti BR”, se vorrai ne parleremo in altra sede e in altro momento). Proprio questo apprezzamento nei tuoi confronti ha generato la sorpresa per il veleno che hai riversato su Giannuli (altro compagno che stimo) e per il modo “obliquo” con cui l’hai fatto… Scrivi: “Quali meriti scientifici o titoli di altra natura gli abbiano garantito una così ampia fiducia e una così lunga cooptazione negli ambienti giudiziari e nelle commissioni parlamentari non è di dominio pubblico”; anche in altri passaggi metti in discussione professionalità o capacità o onestà intellettuale di Giannuli (“parassita concettuale” lo definisci). M’accorgo che potevo dilungarmi meno: l’epiteto di “cialtrone” che gli affibbi nel titolo era più che sufficiente per descrivere il veleno nei suoi confronti; veleno che, per quanto l’ho conosciuto io, sarebbe meglio destinato ad altri bersagli.
Poi metti in contrapposizione “il cialtrone Giannuli” con il prof. Clementi, che al contrario è “autore tra l’altro di due importanti volumi sulla storia delle Brigate rosse: La pazzia di Aldo Moro, Rizzoli e Storia delle Brigate rosse, Odradek, sa quel che scrive … a differenza di Giannuli, fa lo storico con passione e onestà fino in fondo”.
Te lo dico subito: non conosco Clementi e i due suoi libri che hai citato. Anzi, ti ringrazio (senza ironia) della segnalazione: vedrò di recuperarli e sono certo che li troverò interessanti (di nuovo: senza ironia).
Il giudizio che dò, quindi, NON è su professionalità o capacità o onestà intellettuale di Clementi, ma solo sulle risposte che lui dà alle “famigerate” 18 domande. Il punto è che, così come apoditticamente fai cadere il tuo anatema su Giannuli, specularmente fai con l’elogio di Clementi. Il lettore si deve accontentare del tuo giudizio. Il primo è un cialtrone (“a prescindere” direbbe Totò) il secondo è uomo d’onore (direbbe Shakespeare).
Concludo (sul punto) dicendo che personalmente ho trovato in Aldo una persona competente, disponibile e appassionata; anche se il mio giudizio positivo è riferito allo “stragismo nero”: è l’aspetto che più m’interessa per le mie ricerche attuali ed il solo su cui ho scambiato opinioni con lui.

Ma veniamo “al merito”: ti confesso una cosa che, credo, apprezzerai. Anche a mio avviso alcune (ripeto: alcune) delle 18 domande di Aldo sono criticabili. Ma alcune risposte di Clementi sono semplicemente delle “non-risposte”.

Di seguito, alcuni stralci (per i lettori: la versione completa delle risposte di Clementi è qui)

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Domanda n. 4 di Giannuli:
Come mai le Br pensarono immediatamente che Fausto Tinelli e Iaio Iannucci erano stati uccisi dai “sicari del regime”?

Risposta n. 4 di Clementi:
La quarta domanda riguarda i compagni Fausto e Iaio. Che le BR non conoscevano, tanto che chiamano Iaio con il suo nome di battesimo, Lorenzo. Perché pensano che siano stati uccisi dai “sicari di regime”? Intanto quel duplice omicidio fu rivendicato dai NAR in diverse città. Inoltre, si tratta di un’espressione propagandistica forte, legata alla situazione politica del momento (le BR hanno in mano Moro). Le BR possono aver pensato a una intimidazione trasversale, o semplicemente, era difficile credere che Fausto e Iaio fossero stati uccisi da compagni del movimento, da anarchici o da rapinatori. Per le BR si trattava di un omicidio politico eseguito dai fascisti. Dopo piazza Fontana, che hanno sempre definito strage di Stato, a loro dire la mano fascista che uccide è parte del regime che stanno combattendo.

Domanda n. 5 di Giannuli:
Come mai le Br non abbandonarono il covo di Montenevoso dopo l’omicidio del dirimpettaio Tinelli e dopo lo smarrimento del borsello di Azzolini, che non rendevano più il covo sicuro?

Risposta n. 5 di Clementi:
La quinta domanda, secondo Giannuli, è strettamente collegata alla precedente. Come detto, le BR non conoscevano né Fausto, né Iaio. Non sapevano dove abitassero e, inoltre, Fausto Tinelli non era “dirimpettaio” della base milanese di Via Monte Nevoso. Abitava al numero 9. La base era al numero 8. Le BR non avevano motivo di credere che con un mazzo di chiavi si potesse risalire alla base. Per questo non la lasciarono. Non era, poi, una base “viva”, ma fu usata allo scopo di scrivere i documenti del dopo Moro. In quel lasso di tempo venne scoperta.


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Ho accorpato due domande perché il lettore avesse davanti il quadro complessivo, ma la questione va sezionata in più punti.
Per due volte Clementi sottolinea che le BR non conoscevano Fausto e Iaio. Questo è fuori dubbio; e ad onor del vero mi sembra non fosse intenzione di Giannuli insinuare come ipotesi “viscida” una “strana conoscenza” fra le BR e Tinelli prima dell’uccisione di quest’ultimo.
Ma dire che i brigatisti “Non sapevano dove abitassero (ndr: i due ragazzi)” mi sembra inverosimile (DOPO l’omicidio e limitatamente a Tinelli). Sicuramente PRIMA dell’omicidio i due ragazzi erano, per i brigatisti di Via Montenevoso, due sconosciuti. DOPO, mi sembra impossibile pensare che (anche solo per il naturale tam tam di commenti che sull’episodio si sarà da subito creato nel quartiere) i brigatisti di quella base non abbiano saputo che Fausto era un loro “vicino di casa” (sul “dirimpettaio” mi soffermerò oltre). Altrettanto strano è che i militanti dell’appartamento milanese non si siano detti qualcosa tipo “hanno ammazzato 2 ragazzi di sinistra. Uno di questi abitava proprio nella nostra via… Forse vogliono farci capire che sanno dove ci troviamo…”. Infatti Clementi stesso dice “le Br possono aver pensato a una intimidazione trasversale”. Questo mi sembra ragionevole, e non è un elemento su cui glissare. Mettendomi nei panni dei militanti BR è proprio questo che anch’io avrei pensato; e “l’omaggio” che i brigatisti inseriscono in un loro comunicato ai compagni Fausto e Iaio alimenta l’ipotesi…
Insomma, il punto non è adombrare una precedente conoscenza tra Fausto Tinelli e le BR (ripeto: sono certo non fosse intenzione di Aldo), ma valutare se e in che misura quell’omicidio fosse teso a “dare un segnale” alle BR; e se e in che misura  le BR lo abbiano interpretato in questo senso.

Un discorso a parte è su “Fausto Tinelli non era “dirimpettaio” della base milanese di Via Monte Nevoso. Abitava al numero 9. La base era al numero 8”.
Cosa intende Clementi? Che Fausto NON abitava esattamente davanti all’appartamento delle BR? Io non sono stato in Via Montenevoso, ma, per quanto può interessare, a togliere ogni dubbio sul fatto che l’appartamento-Tinelli fosse proprio di fronte all’appartamento-BR è utile “Fausto e Iaio. La speranza muore a 18 anni” (Daniele Biacchessi; l’edizione da me consultata è Baldini e Castoldi, 1996, pagg. 56 - 60):
Pagina 56: “Una domanda mi viene spontanea (ndr: è Biacchessi che scrive e si rivolge a Bonisoli, che poi risponde). «Lei sapeva che Fausto Tinelli abitava in via Montenevoso 9, al primo piano, esattamente davanti alle tre finestre dell’appartamento-covo delle Brigate rosse?». … «Proprio non lo sapevo. Noi facevamo una vota ritirata …».”
Pagina 60: “(ndr: è sempre Biacchessi a scrivere) Fausto Tinelli abita in via Montenevoso 9, al primo piano. Proprio davanti al balcone dell’appartamento dei brigatisti.”

Intendiamoci: non è che la cosa sia d’importanza fondamentale, ma sembra assodato che l’abitazione della famiglia Tinelli fosse proprio davanti alla sede brigatista. A maggior ragione sembra plausibile che i brigatisti abbiano potuto avvertire “qualcosa di strano” nell’omicidio di un ragazzo vicino alla sinistra extraparlamentare ed abitante di fronte a una loro sede: come ho detto poco sopra, che le BR non sapessero PRIMA DELL’OMICIDIO chi fosse Fausto è pacifico (è quel che dice Bonisoli a Biacchessi); che non l’abbiano saputo DOPO mi sembra inverosimile.

Mettiamola così: visto che (come dici tu, Paolo) “Clementi oltre a cercare e studiare i documenti delle e sulle Brigate rosse incontra anche gli ex militanti di questa organizzazione, parla con loro, confronta le loro versioni”, la domanda provo a riformularla io:

Prima del loro omicidio Fausto e Iaio erano, per i brigatisti di via Montenevoso, due sconosciuti. Gli stessi militanti Br vennero a sapere successivamente che uno dei due ragazzi uccisi abitava nelle loro vicinanze? Se sì, quando lo vennero a sapere? Sempre in caso affermativo: considerarono il fatto una pura coincidenza o pensarono a una intimidazione che, diretta nei loro confronti, aveva tragicamente coinvolto i due ragazzi? La citazione di Fausto e Iaio all’interno del loro comunicato era dunque solo un omaggio a due compagni uccisi dai fascisti o significava che quella “intimidazione trasversale” era stata recepita?

(Incidentalmente, preciso che su un aspetto concordo con Clementi: non c’erano dubbi sulla matrice dell’omicidio di Tinelli e Iannucci, peraltro rivendicato dai NAR. Solo chi volle inquinare le indagini provò a parlare di “regolamento di conti interno alla sinistra”, rapina, storie di droga e altre sciocchezze. Fausto e Iaio furono uccisi da “mani nere”: lo si capì da subito e a maggior ragione è giusto ribadirlo oggi, mentre ci apprestiamo a vivere l’anniversario della loro uccisione. Può sembrare superfluo, ma è invece il minimo e necessario riconoscimento ai due compagni).

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Domanda n. 8 di Giannuli:
Venne realizzata una sola copia dei manoscritti di Moro? In caso affermativo, perché mai, vista la delicatezza del testo in questione? In caso negativo, che fine hanno fatto le altre copie?

Risposta n. 8 di Clementi:
La mia supposizione è che non tutte le copie si trovavano a Milano. Ma gli originali finirono distrutti. Come? Si può supporre un errore.

Domanda n. 13 di Giannuli:
Quando e perché le Br decisero di distruggere gli originali di Moro?

Risposta n. 13 di Clementi:
A questa domanda ho già riposto. Suppongo che furono distrutti per errore.


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Qui è opportuna una digressione sul “memoriale Moro”.
(postilla per Paolo: è una delle digressioni ridondanti che faccio a uso del lettore meno informato. Perdonami quindi qualche approssimazione: sul tema si potrebbero scrivere pagine su pagine; io ne offro solo una sintesi).

Tralascio tutta la parte sullo smarrimento del borsello da parte di Azzolini (altrimenti il lettore davvero “va in balla”, anche perché esistono diverse versioni, ma risulterebbe dispersivo affrontarle) e su come/quanto questo smarrimento guidi le forze dell’ordine in via Montenevoso dove – siamo al 1° ottobre 1978 – viene ritrovata la prima parte del memoriale Moro. Parlo di prima parte perché solo nel 1990, sempre nello stesso alloggio, dietro a un pannello-intercapedine si ritrovano altre carte (oltre a un po’ di soldi e armi): c’è anche un’altra copia del memoriale, ma contiene pagine in più (rispetto al ritrovamento del 78); quindi, allo stato, possiamo ritenere che la versione completa sia quella del 90.
I documenti trovati nel 78 e quelli trovati nel 90 sono però coevi. Non sono originali, ma dattiloscritti (o dattiloscritti in fotocopia, ora non ricordo). Sta di fatto che, prima di essere arrestati, il primo ottobre 1978 i militanti di Via Montenevoso hanno TUTTO il memoriale, su cui stanno lavorando per pubblicare un opuscolo. Pure su questo concordo con Clementi (risposta alla domanda n. 12): “Non ci fu mai una decisione di non rendere pubblici gli scritti di Moro. Al contrario, in via Monte Nevoso stavano lavorando proprio per la loro pubblicazione”.

Allora, quale è il punto, andando alla sostanza (e non alla forma) delle domande di Giannuli?
1. Delle carte di Moro si trovano solo delle fotocopie (parlo del memoriale, che altro non era – sostanzialmente – se non l’insieme di risposte che il presidente della DC aveva fornito alle domande sottopostegli durante la prigionia).
2. Il memoriale viene trovato in due tempi. Prima incompleto, poi completo (o almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze dobbiamo pensare che tale sia, col secondo ritrovamento).
3. Le BR sanno, dopo il 1° ottobre, che le autorità hanno ritrovato solo una parte (o almeno dicono d’averne ritrovato solo una parte) del memoriale. Quindi in quel momento le BR dovrebbero avere in mano gli originali e dovrebbero avere convenienza a dire “lo Stato non vi dice tutto! Noi abbiamo il memoriale completo e possiamo dimostrare che lo Stato vuole nascondere qualcosa!”. Questo punto è rafforzato dal fatto che i militanti arrestati il 1° ottobre 1978 sostennero, nel processo, che quanto risultava dal verbale di sequestro non era tutto il materiale presente nella base; infatti 12 anni dopo, dietro il famoso pannello, “saltò fuori” il resto. (postilla per Paolo: l’affermazione secondo cui già nel processo a loro carico i brigatisti abbiano sostenuto l’incompletezza del ritrovamento non posso supportarla con citazioni: sono certo d’averne letto su qualche libro – forse uno di Gotor – ma in questo momento non trovo la fonte. Correggimi se ho ricordato male).

Inoltre, non me ne voglia Clementi, ma accontentarsi dell’ipotesi della distruzione “per errore” degli originali mi sembra al limite dell’ingenuità, sia per lui (nel crederlo) che per i brigatisti (nell’averlo fatto, nel caso in cui davvero i documenti siano stati distrutti per sbaglio). Peraltro, confesso che le ragioni della distruzione – ribadito che non credo nell’errore – continuano a sfuggirmi: non sto facendo il dietrologo; è sincera curiosità, assieme a un probabile mio limite nel non vederne la ragione; mi accontenterei anche di un “non possiamo spiegare il motivo”.

Anche in questo caso provo a riformulare, accorpandole, le domande in questione:

Sembra assodato che le BR non avessero mai abbandonato l’idea di rendere pubblico il cosiddetto “memoriale Moro”: un lavoro di cui si stava occupando proprio la colonna di Via Montenevoso. Conseguentemente, dopo che i media pubblicarono alcuni stralci del “memoriale” in seguito alla caduta della base milanese, appare chiaro che i brigatisti (avendo contezza del contenuto completo degli scritti di Moro) si siano accorti che i media stavano parlando solo di una parte di quei documenti. Alla luce di quanto sopra, perché l’operazione di “censura e occultamento”, che lo Stato stava effettuando verso il “testamento” del presidente della DC, non fu denunciata dalle BR (oltre che nel processo) accelerando la pubblicazione del memoriale o almeno di alcune delle parti “censurate”?
A questa domanda si potrebbe obbiettare che già durante il rapimento lo Stato aveva cercato di depotenziare gli scritti e la figura stessa di Moro (parlando di “sindrome di Stoccolma”, di parole “estorte” a Moro, o comunque non riconducibili al “vero” pensiero dell’esponente democristiano, eccetera). Ad avviso di chi scrive, però, proprio il precedente comportamento dello Stato nei “55 giorni” avrebbe reso opportuno denunciare, dopo il 1° ottobre 1978, le perduranti ambiguità dello Stato nella “vicenda Moro” (durante il rapimento e DOPO l’uccisione).
Inoltre: gli originali del memoriale furono davvero distrutti solo a fine 1978, quindi successivamente allo smantellamento di via Montenevoso? In caso AFFERMATIVO: considerando che le carte depositate nella base milanese erano ormai “in mano al nemico”, perché non si considerò strategicamente opportuno restare in possesso degli originali, anche solo per ritentarne la pubblicazione?


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Caro Paolo, m’accorgo d’aver messo già troppa carne al fuoco. Per cui non mi resta spazio o tempo per affrontare – se non velocemente – altre cose che tu hai affrontato: l’eccesso di dietrologia, il ruolo distinto di magistrati e storici, il “doppio stato” e altro ancora. Cose su cui, peraltro, di massima concordo con te.
Paradossalmente, ricordo d’aver letto un articolo proprio di Giannuli (se non erro dopo la sentenza di primo grado sul processo per la strage di Brescia, novembre 2010) dove Aldo diceva cose analoghe alle tue, riguardo l’indipendenza del giudizio storico (o “fattuale”) da quello della magistratura. Anch’io penso sia la storia a dover giudicare le sentenze e non viceversa. La frase può suonare strana (disse qualcosa del genere Stefania Craxi a proposito del padre; a dimostrazione che anche affermazioni assai condivisibili possono essere distorte…) ma io ci credo davvero. Penso che un limite sottile divide dietrologia e sincera curiosità, “misteri reali” e “fatti che si è voluto rendere misteriosi”. Chi, in questo Paese, ha avuto e ha tuttora interesse a intorbidire le acque ha gioco facile.
Il punto, a mio avviso, è però che un conto è analizzare la storia su tempi lunghi, un altro è farlo su tempi medio-brevi. Nel senso che in tempi medio-brevi l’assenza (o l’incompletezza) di verità giudiziarie con troppe zone d’ombra (preciso: in questo non sto parlando di BR, ma di stragismo nero, per fare un esempio) ha favorito la creazione di “leggende metropolitane”, verità di comodo, bufale che – di voce in voce – nell’opinione corrente diventano verità conclamate. In questo contesto possono proliferare strane teorie, scritte da chi si è fatto ingannare, da chi “ha voluto” farsi ingannare, da cialtroni (questi sì) che vivacchiano sui “misteri d’Italia” anche quando misteri non sono…
Però, facciamocene una ragione: il ruolo degli storici a supporto dell’azione della magistratura può essere fondamentale (se fatto con rigore e onestà intellettuale) o esiziale (se fatto per servilismo); può smontare o alimentare le bufale… Insomma, la commistione di ruoli degli storici fra “accademici tout court” e “storici consulenti delle procure” la vedo, più che come un bene o un male, come un dato di fatto difficilmente evitabile.
Sul doppio stato: ti confesso che non ho letto testi sull’argomento; neanche quelli di Aldo. Per quelle che sono le mie conoscenze (essenzialmente: libri e atti processuali su Piazza Fontana e Piazza della Loggia, audizioni scaricate on line della Commissione stragi, altri testi “sul genere” ecc.) penso si possa parafrasare Pirandello e parlare di “uno stato, nessuno stato, centomila stati”. Nel senso che lo Stato (come “macchina del potere”) è multiforme e “multifacce”. Al suo interno, ognuno ha scelto di essere fedele (per convinzione o opportunismo; seguendo “ideali” o solo convenienze del momento) alla “forma” che più gradiva. Per quanto mi riguarda, verso lo stato “macchina del potere” porto poco interesse o simpatia… Ma ora basta: tutte queste faccende meriterebbero ben altri approfondimenti.

Ti saluto con immutata stima.
Francesco “baro” Barilli

venerdì 2 marzo 2012

Parlate pure di Val di Susa ed encomi solenni (ma vi prego, lasciate stare Pasolini…)

Mi rivolgo a giornalisti, opinionisti, ministri… E a tutti/tutte quelli che hanno parlato del tragicomico video che ha ripreso il confronto fra un manifestante (ciarliero) e un carabiniere (silenzioso) in Val Susa. Lo faccio solo per pochi appunti.

- Lasciate perdere Pasolini e Valle Giulia. Non è obbligatorio che ogni qualvolta le cronache ci portano a parlare di confronti fra manifestanti e forze dell’ordine si facciano fischiare le orecchie nella tomba al povero Pasolini. Che, magari, vorrebbe essere ricordato anche per qualcos’altro… Ma evidentemente non tutte le frasi del poeta sono così facili da citare per fare bella figura in un salotto o, peggio, da Bruno Vespa.

- Noto che per identificare il carabiniere che (lo dico senza ironia) si è correttamente comportato si è fatta molta meno fatica di quanta se ne faccia in casi speculari, ossia quando si deve identificare un agente “picchiatore” (Genova, e non solo, insegna…).

- Raramente m’è capitato di vedere i media mainstream schierati a falange da una parte: quella pro Tav, ovvio (e parlo di schieramento “a falange”, formula solitamente usata per le forze dell’ordine, non a caso: in Val di Susa la falange “virtuale” dei media mi sembra persino più inquietante di quella fisica delle forze di polizia). Il fatto non mi sorprende, per carità: più sono alti gli interessi economici in gioco e meno è indipendente la stampa. Però non ricordo d’aver mai visto un salto di qualità così repentino… In pochi giorni quotidiani e televisioni hanno silenziato quelle scarne parole che prima spendevano per informare, diventando praticamente tutti omologati e sovrapponibili.

- A proposito di “media sovrapponibili” e di salto di qualità repentino: il video del “confronto” tra manifestante e carabiniere è importante quanto un brufolo… Eppure in poche ore ha scalzato ogni approfondimento dallo scellerato inseguimento sul traliccio che ha causato (anche al di là delle intenzioni, non è questo il punto) la caduta di Luca Abbà… Si è cancellato non solo Abbà (e le sue condizioni… con un cinismo e una mancanza di umanità che mi sconvolge), ma pure tutte le violenze ai manifestanti per dare spazio “al brufolo”… (Un inciso: credo che il manifestante abbia sbagliato a buttarla sul piano della provocazione personale.  Sarà un mio limite, ma personalmente cerco sempre di “stare sui contenuti”; la provocazione personale non fa per me e, soprattutto, mi irrita e indigna quando viene “dall’altra parte”: a maggior ragione m’infastidisce vederla esercitata da qualcuno che dovrebbe essere dalla mia di parte…).

- Prima ho parlato di video “tragicomico”. Mi spiego meglio: sembrava girato (sarebbe meglio dire “interpretato”) ad uso e consumo della televisione. Il Grande Fratello in Val di Susa, insomma (ma quello di Mediaset, non di Orwell…). Dei due “attori” uno ha capito cosa era opportuno fare, l’altro no.

Francesco “baro” Barilli

P.S.: Siccome ho accennato a Pasolini segnalo, rivolgendomi a chi ha proprio tempo da perdere, un articolo che in altri tempi scrissi sull’argomento (Pasolini e Valle Giulia, intendo). E sul Pasolini “dimenticato” potete leggere anche questo.