lunedì 17 ottobre 2011

Sui fatti di Roma

Solo ieri, a tarda sera, ho visto sulla bacheca Facebook di Amal una discussione su quanto successo sabato a Roma. Una discussione che, più che farmi “parteggiare” per Tizio o per Caio (fra quanti hanno preso parola sulla bacheca), mi ha lasciato perplesso. E quello stato d’animo è diventato qualcosa di peggio leggendo i giornali oggi, sentendo Di Pietro straparlare di Legge Reale, sentendo notizie di perquisizioni e arresti, leggendo di accostamenti fra la Val Susa e i disordini a Roma…

Lascio le mi riflessioni per punti.

1. La discussione (parlo sempre di quella sulla bacheca di Amal) si è in parte incentrata su “cos’è la violenza” e sulla domanda se rompere vetrine sia “violenza” o “azione diretta”. La semantica è una brutta bestia, non mi fermerei a quella. E’ pacifico che, in una situazione disastrosa come quella in cui viviamo, chi protesta non è detto che riesca a (o voglia) comportarsi come un Lord Inglese. Però, secondo me, in una manifestazione ci vai con un “progetto condiviso”: e mi sembra che la maggioranza dei manifestanti di sabato NON condividesse le azioni del BB (so che si tratta di un’etichetta inadatta: uso il termine per semplificazione, per capirci).

2. Io sono per la nonviolenza. Per inclinazione personale prima che per convinzione. Nel senso che sono fatto così: in un corteo fatico a gridare uno slogan; lanciare un sasso sarebbe una cosa, più che inaccettabile, per me innaturale. Ma so che all’interno di un movimento ci possono essere pratiche diversissime: però sarebbe bene parlarne prima, non dopo. Perchè se si vuole essere “interni” (a una manifestazione, a un movimento) le pratiche, anche diversissime, vanno condivise o almeno conosciute e accettate. Poi (sarò chiaro, visto che tutto voglio essere tranne che ambiguo) se chiedete a me un parere sulle “vetrine sfondate” (sempre per semplificare) vi dico non solo che non lo faccio e non lo farei, ma che la trovo una cosa stupida e controproducente – e su questo tornerò più avanti. Che poi in Italia chi rompe una vetrina sia condannato a una valanga di anni rispetto a chi rompe una testa con un manganello è tutto un altro discorso: uno stato di cose assurdo e che mi fa incazzare, ma ADESSO NON stiamo parlando di questo.

3. En passant (lo scrivo qui perché sennò mi dimentico: scrivo questi appunti in fretta, senza un ordine particolare) vi invito a leggere la riflessione di Rrobe sul suo blog: è molto interessante.

4. In un Paese normale dopo quanto successo a Roma il capo della polizia e il ministro dell’interno sarebbero sul banco degli imputati. Da noi invece si parla di ritorno alla Legge Reale… E se ne parla dall’opposizione, per giunta... Ora, questo cosa ci dice (oltre che siamo in un Paese totalmente squinternato)? Che qui, invece che litigare fra noi su cosa sia violenza e cosa sia l’azione diretta, sarebbe bene riflettere (MA ADATTANDOLA) sulla solita storiella del saggio che indica la luna e lo stolto che guarda il dico. Dico “adattandola” in primo luogo perché non mi va di fare la parte né del saggio né dello stolto. In secondo luogo perché qui qualcuno (non necessariamente un saggio) indica la luna: alcuni guardano il dito, altri la luna, nessuno si ferma a dire che l’uomo, col suo gesto, sta semplicemente distraendoci per non farci osservare cosa sta facendo con l’altra mano (magari si sta solo sfrucugliando i coglioni, magari peggio, non so).

5. L’assenza di conflitto e il conflitto violento non sono separati da un abisso, ma da un sentiero stretto. E prima di chiederci “da che parte stiamo” dobbiamo capire che, almeno in questo momento storico e alle nostre latitudini, il conflitto violento (oltre che respinto in termini etici, ma questo vale per me e – l’accetto – può non valere per altri) va respinto in termini pratici. Perché oltre a produrre repressione rafforza proprio lo status quo che si vorrebbe modificare. Per questo, tanto per fare un esempio, non bisogna pensare ai fatti di Genova 2001 come a esagerazioni (non conta se specifiche o numerosissime) delle forze di polizia: queste non avevano il compito di impedire o limitare i disordini, dovevano alimentarli.

6. A corollario del punto precedente: l’improvvisazione, anche quando generosa (ma questo, perdonatemi, non è il caso di Roma dell’altro ieri) non paga. La “provocazione creativa” va benissimo, ma non è esente da rischi, perché fra noi si celano ambiguità prima ancora che teste calde. Sono in troppi ad attendere che uno dei “nostri” perda il controllo per puntare poi l’indice indiscriminatamente su tutto il movimento. E se qualcuno di noi la fa fuori dal vaso è inutile lamentarci dicendo che si trattava di poche gocce, perché sappiamo bene quanto i media ci sguazzeranno, trasformandole in una pisciata colossale.

7. Lascio fuori da questi appunti (altrimenti diventano Guerra e Pace) la riflessione sugli “infiltrati”. Basti dire che ci sono stati (ci sta, è nell’ordine delle cose), sia che con questo termine si intenda uomini delle forze dell’ordine (o dei servizi) che si dilettano in dirty jobs, sia che si tratti di frange dell’estrema destra che, di tutta la manifestazione di sabato, condividono un generico “no alla globalizzazione e alla grande finanza”. Ma non è nemmeno di questo che stiamo parlando…

Francesco “baro” Barilli

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