lunedì 26 settembre 2011

L’Apocalisse di Simona

Ti guardi alle spalle. Niente di bello o da ricordare. La città si è fermata sul confine che non poteva oltrepassare e ha imparato a fare tesoro di quel limite: quello che altri chiamano lungomare per te è solo una catena di insegne commerciali.
Davanti a te il mare si offre come lo spettacolo dell’indefinito. Non è più estate e non è ancora autunno. Non è più notte e non è ancora giorno. Il cielo sereno sarà azzurro solo fra un po’, per ora l’acqua riflette e rende più cupo quel colore ancora incerto, lo fa suo e lo restituisce ricco di sfumature. E non ci sono suoni, anche il mare si limita a un rumore di fondo. Ti sembra giusto così: la vita, quella vera, si distingue da un film perché è privo di colonna sonora. Al massimo, un sottofondo.
Sulla spiaggia le sedie a sdraio sono tutte libere e ne occupi una. Scuoti la sabbia dalle ciabatte. E dalla pelle il desiderio di avere lui accanto. L’ombrellone accanto è chiuso, totalmente inutile in questa stagione e a quest’ora. E’ passato il tempo delle granite e del cocco, l’estate è uscita da un po’, ti sembra, dalla stessa porta da cui sei uscita poco fa, dopo che allo specchio hai visto il volto di un’altra donna.

Ti sei svegliata presto e sei andata nello studio. Hai guardato il pannello sul treppiede. Il ramo di un acero, le foglie rosse. Sullo sfondo, il cielo azzurro s’incupisce con pennellate più scure, sui bordi, e più chiare verso la chiazza bianca del sole. Col pennello hai aggiunto un altro ramo e altre foglie a destra. Poi con una spatola hai preso il blu e hai caricato maggiormente gli angoli del quadro, rendendoli più cupi. Ti sei allontanata, hai guardato il tutto per poi ripassare col blu tutto il bordo inferiore.
Poi lo sguardo ti è caduto sulla scrivania, hai aperto ancora la busta, hai dato un’occhiata al contenuto. E’ allora che ti sei guardata allo specchio e hai visto il volto di un’altra donna, una senza la tua paura. E hai deciso di uscire.

Ora ti allunghi sulla sdraio, la camicia bianca semiaperta sul petto, sui tuoi seni bellissimi e malati. Apri il giornale. Qualche guerra, da qualche parte. La crisi di governo sembra scongiurata. In città metteranno nuove fioriere a delimitare la zona pedonale, recentemente ripavimentata.
Senti uno scalpiccio frenetico sulla sabbia e una voce concitata. Un grosso cane s’è avvicinato, il padrone lo sta richiamando. Mi scusi, non abbia paura, è buonissimo, ti dice. Lo hai già capito, lo stai accarezzando sulla testa e sotto il collo. Non si preoccupi, rispondi. L’uomo si scusa ancora, chiama a sé il cane, che non vuole saperne di lasciare le tue coccole. Lui si siede sulla sdraio accanto alla tua.
“Scusi ancora. Ha quattro anni ma si comporta ancora come un cucciolo. Spero non l’abbia spaventata. E stia attenta, è tutto sporco”.
Sorridi e gli mostri le mani e i polsi, sporchi di rosso e blu. Stavo dipingendo, rispondi alla domanda inespressa nel suo sguardo, sporcarti è l’ultimo dei tuoi problemi.
“Lei dipinge? Cosa sta dipingendo, se posso chiedere? Ah, io mi chiamo Fabrizio”.
Non ricambi col tuo nome. Foglie d’acero che si stagliano nel cielo, dici.
“Ed è venuta qui per stare un po’ in pace… E’ giusto, è bellissimo a quest’ora. Il mattino ha l’oro in bocca, si dice”.
Raramente, rispondi. Di solito, come questa mattina, è giallo ma non è oro (pensi, ma non vuoi essere volgare), altre volte è vero.

Pochi giorni prima era stato vero. Era mattina presto quando avevi visto che lui stava tornando, stavi guardando la strada dalla finestra del bagno. Dico visto, ma sarebbe più giusto dire sentito. Lo sentivi dentro che stava tornando, nell’esatto istante in cui avevi deciso di affacciarti, fregandotene se eri nuda e qualcuno poteva vederti. Ti eri appena fatta la doccia, ti sei avvolta una salvietta attorno alla vita e sei corsa ad aprire nuda dall’ombelico in su. Non sai il perché, certo non per presentarti a lui come un’amante che lo attendeva a braccia aperte.
Forse tu non capivi perché l’avessi fatto, certamente lui ha capito che non c’era nulla di erotico in quel gesto. Sì, una volta aperta la porta è rimasto sorpreso, ma poi ha fatto esattamente quel che era giusto fare. Non ti ha guardato i seni, anzi, chiusi gli occhi ti è sembrato smarrito. Poi si è passato una mano fra i capelli e ha gettato la testa indietro, credi faticasse a trattenere le lacrime. Non potevo andare via, ha detto. Lo speravi, hai pensato, senza dirlo. Ti è sembrato il momento più intenso, se non il più bello, della tua vita. Sprofondare nei suoi occhi, sentire come se il mondo fuori fosse solo la cornice atroce della vostra esistenza.
L’hai fatto entrare, vi siete seduti sul divano. Scusa, dovevo tornare e, sì, ho avuto paura, ha detto. Gli hai preso le mani. Le vostre dita si sono incrociate, e quello sì è stato un attimo quasi erotico. Non l’erotismo del desiderio, ma quello di un gesto che testimoniava due vite indissolubilmente intrecciate.
Lo so che hai paura, hai risposto, e anch’io ne ho. Ed era vero ed era falso al tempo stesso, perché in quel momento non avevi né paura né rabbia. Forse nostalgia.
Vuoi un caffè?, gli hai chiesto. Ti ha guardata in modo un po’ strano, come a farti intendere che gli sembrava una cosa stupida. Voglio solo sentirne l’odore, capisci?, hai spiegato. Ha sorriso, capiva. Dopo un paio di minuti l’aroma caldo del caffè riempiva la stanza e ha compreso ancora meglio.
Poi dovrai andartene davvero; è così che voglio, hai aggiunto, rispondendo al suo sguardo. Ti sembrava giusto, anche se doloroso per entrambi. Sapevi che lui, senza condividerla, avrebbe rispettato la tua scelta.

Il cane si è gettato nell’acqua. Sembra felice come può esserlo solo un animale. Lo pensi, ma senza neppure accorgertene lo dici. E l’uomo di nome Fabrizio ti guarda come se tu fossi un oracolo che ha pronunciato una verità terribile e bellissima.
“Dai, vieni qua!”.
La bestia torna dal suo padrone, si scuote sollevando una nuvola di acqua e sabbia. Voi vi voltate, provando a ripararvi come potete. Fabrizio scrolla il suo panama dalla sabbia, poi ti passa una salvietta per pulirti e lo ringrazi.
“Beh, credo che l’abbiamo disturbata abbastanza. Vedo che ha altro a cui pensare, la lascio in pace”, dice l’uomo.
Lo guardi indossare il suo cappello e andarsene, per fermarsi dopo pochi passi.
“Non mi ha detto come si chiama…”.
Simona, rispondi.
Lui porta una mano al panama come saluto.
“Bellissimo nome… E buon lavoro per il suo quadro!”, dice.
Gli sorridi. Pensi che dopo chiamerai lui, gli dirai di tornare. E ti senti ridicolmente felice.

mercoledì 7 settembre 2011

Maria dammi la mano

Maria dammi la mano, disse mio padre. Intendeva dire “dammi la mano, ho paura, sento che stanno per arrivare e questa potrebbe essere l’ultima volta che stiamo insieme”. Era il 1944 e mio padre era nascosto nel rifugio, in casa, sui colli del piacentino. Non ricordo se si trattasse di una botola ben occultata, sotto l’assito di legno del pavimento, o di un’intercapedine di fortuna, ricavata in una stanza. Comunque sia, lui sentiva i passi dei tedeschi, la loro voce tagliente e urlata (tagliente e urlata come sa essere la lingua dei tedeschi). Si era rifugiato lì con la fidanzata, Maria. Temeva che quelli potessero essere gli ultimi istanti con lei, così disse: Maria dammi la mano.
Invece no, non andò così. Mio padre me l’avrà raccontata non so quante volte quella storia. Sì, lui era nascosto. Col cuore in gola sentiva le voci e i passi e temeva che quella fosse la fine. Ma, in quell’anfratto buio, fra sé e la morte solo un assito di legno (orizzontale o verticale non importa) non era con la fidanzata – neppure so se ne avesse una, all’epoca – ma con uno dei suoi fratelli. Piero o forse Bruno. Mi sembra fosse Bruno, ma ormai non posso più domandarglielo.
Maria è stata la mia di fidanzata, oggi è mia moglie. E sono io, adesso, protetto da quell’assito di legno, col cuore in gola. O, almeno, se ci fossi vorrei essere lì con lei. E le direi “Maria dammi la mano, perché ho paura. Sento che stanno per arrivare e questa potrebbe essere l’ultima volta che stiamo insieme”.

Io non lo so se mio padre fosse armato, in quel rifugio. Mi sembra d’averglielo chiesto e che lui m’abbia risposto di sì, che se fosse stato necessario avrebbe sparato e avrebbe, come si dice, venduta cara la pelle. Ma non ne sono più sicuro. Sicuro sono che, da bambino, gli chiesi tante volte se avesse ucciso qualcuno, fra i fascisti, fra i nazisti. Rispondeva solo che, sì, qualche volta aveva sparato e forse qualcuno l’aveva beccato. Ma se ho ammazzato qualcuno, diceva, l’ho fatto perché andava fatto, non perché fosse bello.
Così mi diceva. E a me – bambino – non piaceva quella risposta. Perché io avrei voluto vedere mio padre come un eroe con in braccio il suo fucile (ma lui sparava col mitra, precisava) ad ammazzare i cattivi. Quella risposta mi sembrava un po’ codarda. Cioè, meglio, era contraria al mito che io volevo vedere in lui. E invece era una risposta bellissima. L’ho capito da grande, e quando sento chi dice “la violenza è sempre sbagliata, non risolve nulla”, penso alle sue parole. Dicono che la violenza può essere necessaria, ma a due condizioni: che la usi solo perché non hai altre soluzioni e che, soprattutto, dopo averla usata tu ti senta un po’ più schifoso di prima. Perché noi uomini facciamo sempre un po’ schifo, è bene ricordarcelo. Lo facciamo un po’ di più dopo che abbiamo usato violenza, anche se magari era proprio necessaria. Quando a volte vorrei essere più manicheo penso a quella frase. Non mi capita spesso – desiderare di essere manicheo, intendo – ma a volte sì: la vita è più semplice da decifrare se dentro di te poni un netto contrasto fra bene e male. Ma in quel modo so rimediare alla tentazione.

Mai capito perché tanti partigiani l’abbiano sfangata, dietro un’intercapedine o sotto una botola. Così tanti che l’episodio che ho raccontato può sembrare artefatto. Invece è vero, mio padre me lo raccontò, anche se non so più se assieme a lui ci fosse Piero o Bruno, fra i suoi fratelli. E lui se la cavò, i tedeschi se ne andarono. E adesso ci sono io là sotto, con mia moglie e le dico “Maria dammi la mano” mentre penso se lui abbia mai ucciso qualcuno. Cosa disse davvero lui in quei momenti non lo so: probabilmente tacque e basta.

Non ho mai sognato mio padre mentre era in vita. L’ho sognato – ma raramente: non sogno quasi mai – dopo che è morto, il 13 ottobre 1996. Il sogno è sempre uguale. Io e lui su una collina. Lui spinge una carriola lungo il pendio, in salita, poi si ferma. Respira a fatica, ma è sereno. Io gli chiedo se vuole una mano, e nel sogno sento una strana angoscia, immotivata visto l’ambiente che ci circonda, così silenzioso e tranquillo. Non credo ci voglia un grande psicologo per interpretarlo: un peso, la fatica, il senso di colpa per non averlo aiutato a spingere quel suo peso.

Una delle ultime volte che l’ho visto era in ospedale. Sarà stato un mese prima del secondo infarto, quello che l’avrebbe portato via. Quando entrai nella stanza era a letto, stava guardando una foto che gli avevo lasciato: ritraeva lui assieme al mio primo figlio, l’unico nipote che avrebbe conosciuto. Ripose la foto sul comodino, si asciugò gli occhi con una mano, ma molto velocemente. Era un uomo “di una volta”, ex partigiano, poi poliziotto e poi ancora operaio tornitore (per un comunista è troppo difficile restare in polizia, diceva): uno così non piange, specie davanti al figlio maschio. Parlammo tranquillamente. Ricordo che bevve dell’acqua a collo dalla bottiglia, me ne offrì in un bicchiere. Non gli dissi nulla di come l’avevo visto: bene così.
A volte delle persone care che sono scomparse ricordiamo l’ultima volta che le abbiamo viste e ci convinciamo che loro sapevano della fine imminente. Di solito è solo un’impressione, il cedere alla tentazione di essere stati profeti del futuro altrui e poter così pensare di saper essere indovini anche del nostro. Altre volte non è un’illusione: quel giorno vidi nei suoi occhi il rimpianto per quel po’ di vita che avrebbe voluto e che – sapeva – gli stava per essere tolto. Perché mio padre era un piccolo pezzo d’uomo (novanta chili compatti, due mani come tenaglie) ma aveva un cuore ingenuo e, a settant’anni, già troppo stanco. Dormiva con i denti in un bicchiere, io dormo ancora assieme ai miei e questa forse è la differenza fra un giovane e un vecchio.

Quando è morto ricordo che stavo mangiando un budino al cioccolato. Uno speciale, l’aveva fatto Maria con una ricetta trovata su qualche rivista. Col cioccolato fondente, brandy e scorza di limone.
Poi, dopo la telefonata, sono arrivato a casa sua, trafelato. Poi ancora ricordo poche frasi. Alcune dette, altre solo pensate. Dov’è mia madre? Dov’è lui? Ha sofferto? Devo vederlo. Non lo vedrò più.
Poi più nulla, fino all’imbocco del nulla. Fino ai suoi capelli e alla sua fronte fredda, quando hanno sollevato il cristallo della bara e il trapano ha cominciato ad avvitare. E’ allora che ho visto, all’uscita del nulla, un uomo giovane e forte guardarmi mentre, appena nato, sto strillando. Guardarmi e gioire perché sono un maschio. E bere e offrire da bere, per festeggiare. Perché al terzo tentativo è arrivato il figlio col pisellino fra le gambe.
Poi ancora – ma adesso siamo all’oggi – lo vedo nascosto al buio, in un rifugio improvvisato, il cuore che batte all’impazzata, ma è un cuore giovane, non ancora stanco. E dice Maria dammi la mano.

Così si chiude il cerchio. Ora mi immagino d’essere io lì dentro, con mia moglie, a dire la stessa frase che lui non pronunciò. Poi spengo un’altra sigaretta, clicco sul tasto print e il fischio della stampante mi restituisce questi tre fogli.