sabato 13 febbraio 2010

Lettera aperta al Dott. Manganelli

Caro Manganelli,
ho riflettuto a lungo, più che sull’opportunità di scriverle, sul come o in che veste farlo. Potevo scegliere quella del mediattivista che da tempo si occupa di casi di “malapolizia”, a Genova e non solo. Oppure, in modo più teatrale, quella di figlio di un poliziotto, solleticando così la curiosità sua e di qualche lettore. Alla fine è lei ad aver sciolto i miei dubbi con una recente intervista concessa al Secolo XIX. “Genova in quei giorni è stata devastata da migliaia e migliaia di persone. Persone che hanno messo paura. Che hanno seminato il terrore. Che hanno fatto guerriglia urbana”, ha affermato.
Il 16 novembre 2008, in una lettera a Repubblica, aveva usato parole più prudenti: “Credo che il Paese abbia bisogno di spiegazioni su quel che realmente accadde a Genova. L’Istituzione, attraverso di me, si muove e si muoverà a tal fine senza alcuna riserva”. Poco tempo dopo, all’inaugurazione del centro per la formazione alla tutela dell’ordine pubblico, si era lasciato andare a un’altra mezza ammissione. Parlando del G8 2001 aveva detto che “in questo campo ci sono stati errori. Ma noi abbiamo la forza di ammetterlo. E lo spirito critico per isolarli perché non si ripetano” (fonte: Il Secolo XIX). A voler essere cattivi c’è da pensare che il clima politico, rovinosamente mutato in senso autoritario nei pochi mesi che separano queste dichiarazioni, l’abbiano portata a ritenere il G8 genovese un problema risolto. Peccato che di quel problema molti ancora oggi portino i segni, nel corpo e nell’anima.
Leggo, ancora dalla sua intervista più recente, che lei comunque rispetterà, nel merito, le decisioni della Magistratura. A quasi 9 anni dai fatti suona irriverente, e questo non credo risponda alle sue intenzioni. Ho già detto, e lo ripeto ora, che non penso che la vera risposta sul luglio genovese dovesse venire dai tribunali. Soprattutto, non credo che la risposta della magistratura vada letta solo col pallottoliere che conta condanne e assoluzioni. Le ricordo, a tale scopo, che i tribunali hanno già espresso alcuni giudizi, ben diversi dalla sua tranciante assoluzione delle forze di polizia.

Sulla carica al corteo di Via Tolemaide del 20 luglio (da cui nacquero gli eventi che portarono all’uccisione di Carlo Giuliani) i giudici di primo grado hanno riconosciuto le prime reazioni dei manifestanti come “una reazione legittima nei confronti di atti arbitrari dei pubblici ufficiali”. L’ordine stesso di attaccare il corteo “non solo era illegittimo, ma palesemente ingiustificato e sproporzionato alla situazione”.

Su Bolzaneto riporto un estratto dalla condanna in primo grado all’ispettore di polizia penitenziaria al vertice della caserma: “… con più azioni esecutive dello stesso disegno criminoso … sottoponeva o comunque tollerava, consentiva, non impediva che le persone ristrette presso la caserma di Bolzaneto fossero sottoposte a misure vessatorie e a trattamenti inumani e degradanti, e arrecava così un danno ingiusto … a tutte le parti offese in stato di arresto presso la caserma … con la conseguenza di una sostanziale compromissione dei diritti umani fondamentali per le persone offese durante il periodo di permanenza …”.

Sulla Scuola Diaz la sentenza, ora sottoposta ad appello, dice che “quanto accadde all'interno della scuola Diaz Pertini fu al di fuori di ogni principio di umanità, oltre che di ogni regola ed ogni previsione normativa … Quanto avvenuto in tutti i piani dell'edificio scolastico … appare di notevole gravità sia sotto il profilo umano che legale. In uno stato di diritto non è accettabile che proprio coloro che dovrebbero essere i tutori dell'ordine e della legalità pongano in essere azioni lesive di tali entità”. E sull’atteggiamento autoassolutorio e di scarsa collaborazione da parte delle forze dell’ordine, lo stesso verdetto specifica che le violenze nella scuola non possono “trovare giustificazione se non nella consapevolezza di poter agire senza alcuna conseguenza e quindi nella certezza dell'impunità”. 

Sui manifestanti feriti dalle forze dell’ordine nel corso delle varie iniziative del luglio 2001, si è arrivati ad alcune sentenze in sede civile in cui la magistratura, non potendo individuare responsabilità personali ma riconoscendo comunque nella condotta delle forze di polizia la causa oggettiva di quanto accaduto, impone al Ministero dell’Interno il pagamento alle persone ferite di somme a titolo di risarcimento. Queste condanne appaiono il segno tangibile che molti episodi sono riconducibili “… a gravi negligenze, approssimazioni e omissioni in tutta l’operazione di ‘ordine pubblico’ compiuta” (estratto dalla sentenza di risarcimento in favore di S.C.Z., percossa il 20 luglio in Piazza Manin, piazza tematica della Rete Lilliput).

Mi sembra ci sia di che riflettere. Se lei volesse davvero dare un segnale a quanti sono rimasti scandalizzati dall’operato delle forze dell’ordine a Genova, potrebbe molto semplicemente esprimersi su questioni concrete. Questioni, voglio eliminare ogni possibile equivoco, totalmente indipendenti da quanto penalmente rilevante, e forse proprio per questo il suo parere sarebbe più utile. Potrebbe, ad esempio, dire la sua opinione su proposte da tempo sollevate. Per citarne alcune:
- la definizione di regole per consentire la riconoscibilità degli operatori delle forze dell'ordine;
- il varo di una legge che preveda il reato di tortura;
- l’istituzione di un organismo “terzo” che vigili sull’operato dei corpi di polizia;
- l’aggiornamento professionale circa i principi della nonviolenza;
- l’impegno alla esclusione dell'utilizzo nei servizi di ordine pubblico di sostanze chimiche incapacitanti e l'impegno circa una moratoria nell'utilizzo dei GAS CS.

Potrebbe infine esprimersi sull’atteggiamento delle forze dell’ordine nei vari procedimenti genovesi. Atteggiamento che negli stessi tribunali è stato sovente stigmatizzato come segnato da una difesa corporativa che, a mio avviso, nulla ha a che vedere con l’esigenza del Paese, che lei riconobbe nella lettera a Repubblica, di spiegazioni su quel che accadde a Genova nel luglio 2001.

Francesco “baro” Barilli