lunedì 13 dicembre 2010

Diaz, non tutti furono promossi

Questa lettera è stata pubblicata su Liberazione il 12 dicembre 2010:

Caro direttore, è giusto dire che non tutti i responsabili del massacro alla scuola Diaz sono stati promossi negli anni immediatamente successivi al G8 del 2001, come in più occasioni è stato detto - e l'abbiamo scritto anche noi. Fece scalpore, e ci indigna ancora, che alcuni di loro - inchiodati da filmati mentre commettevano violenze e abusi - ricevettero per il 2001 il massimo dei voti nella valutazione ai fini della carriera. Tra quelli che non furono promossi dobbiamo ricordare Michelangelo Fournier, il vice di Canterini al reparto Celere nel 2001, che indossa ancora gli stessi galloni e questo probabilmente deriva dalla sua sintesi fulminante fornita in tribunale circa la «macelleria messicana» che si consumò nella scuola dormitorio di Genova ad opera di poliziotti - quasi sempre travisati e con le più varie casacche - non solo i panni del reparto mobile. Precisazione doverosa, direttore, che non muta la storia di quella notte né la ricostruzione ottenuta dai due pm che faticosamente hanno smontato le versioni ufficiali su quella mattanza.

Checchino Antonini, Francesco Barilli, Lorenzo Guadagnucci, Dario Rossi

giovedì 25 novembre 2010

Varie ed eventuali…

In questi giorni alcune cose mi hanno fatto riflettere, ma mi sembrava non meritassero spazio tempo ed energie per un articolo. O comunque, se pure lo meritavano, ero io a non avere quel tempo e quelle energie. Dunque, ecco solo alcune riflessioni a ruota libera.

*******
L’addio di Mara Carfagna al PDL
Preciso subito che la faccenda in sé non m’interessa molto, di conseguenza ne ho letto poco: giusto quanto basta per capire che si tratta di una lotta di potere interna al PDL in Campania, che riverbera su scala nazionale. Se poi si tratti davvero di un addio o solo di una burrasca momentanea è altra faccenda (da quanto sembra è possibile una ricomposizione della frattura) e pure questa non mi tocca.
Però la curiosità mi ha spinto a dare un’occhiata in edicola a come presentavano la notizia Il Giornale e Libero: come m’aspettavo, i toni oscillano fra il livoroso e l’ironico contro l’attuale Ministro. Non si può parlare, almeno non ancora, di “macchina del fango” o di “metodo Boffo”; semmai di una loro applicazione light.
Certo, dà da pensare che chiunque si discosti dalla linea del Principe sia oggetto di simili “attenzioni”. Mara Carfagna, va ricordato, è stata una delle figura più vicine a Berlusconi, specie a livello di immagine. Ricordo quando (mi sembra in occasione del G8 all’Aquila, ma potrei sbagliarmi) fu scelta per fare gli onori di casa, a mo’ di immaginetta: anche “la ministra più bella del mondo” può essere liquidata in fretta, se diventa scomoda.
Tutto questo, però, mi serve solo per dire che chi si lamenta della “macchina del fango” sarebbe più credibile oggi se avesse fatto sentire la propria voce qualche anno fa. Precisamente, quando la macchina fu mobilitata per insultare quella brava persona (e ottimo giornalista) che era Enzo Baldoni. Per chi volesse saperne di più, cliccare qui.

*******
“Vieni via con me” e Liberazione
Su Liberazione del 17 novembre, Roberta Ronconi si pone alcune domande sul successo della trasmissione condotta da Saviano e Fazio su Rai3, concludendo così: “E’ un evento che non può essere ignorato, che ci regala molte domande e tanti buoni motivi per pensare. Là fuori c’è un’Italia che davvero non conosciamo abbastanza”.
Alcune precisazioni:
1. Su Saviano non ho un’opinione ben definita. Gomorra ce l’ho fermo sul comodino da quando me l’hanno regalato. Il Saviano televisivo l’ho visto in poche pillole (ho un pessimo rapporto con la TV; appena posso la evito e anche quando la guardo m’annoia in fretta), ma in quelle piccole dosi l’ho trovato insipido. C’è di peggio, per carità, ma non m’ha entusiasmato, e “Vieni via con me” non l’ho vista. Ho invece letto alcuni suoi articoli su Repubblica e mi sono piaciuti. Nel complesso: troppo poco per esprimere un giudizio su di lui, come persona o come scrittore.
2. Prima ancora dell’articolo di Ronconi avevo letto, sempre su Liberazione, un articolo molto critico dopo la prima puntata di “Vieni via…” (a firma, mi pare di Paolo Persichetti).
Nel complesso, ho trovato spiacevoli le critiche di Liberazione a Saviano (Persichetti, preciso, è stato molto più duro di Ronconi).
Dirò la mia impressione (che, non conoscendo Saviano – come ho spiegato, può essere sbagliatissima). Mi sembra che a sinistra si tema chi può intercettare un certo malcontento verso il centrodestra senza traghettare voti nella nostra direzione.
Un timore giustificato? Probabilmente sì; forse persino legittimo, in tempi in cui anche la politica deve fare i conti con un bacino di utenza e di attenzione sempre più limitato, in cui il rischio di vedersi “sfilati di tasca” i propri potenziali elettori è sempre alto.
Però resta l’impressione che Ronconi abbia ragione nel porre un problema (“c’è un’Italia che non conosciamo abbastanza”) di cui intuisce l’entità senza individuarne però i dettagli. Forse il successo di Saviano può essere spiegato semplicemente col vuoto (televisivo, informativo e culturale) che c’è attorno: se molti telespettatori scelgono “Vieni via con me” è solo perché non c’è molto di meglio in giro…
Ma tutto questo meriterebbe altri approfondimenti. Vedremo in futuro…

*******
Berlusconi dice ai suoi: “ci vuole più sobrietà”
Più o meno è come se Totò Riina dicesse: “ragazzi, c’è una criminalità in giro che non se ne può più!…”.

Francesco “baro” Barilli

mercoledì 17 novembre 2010

Sentenza sulla strage di Piazza della Loggia: un commento

In questi giorni a Brescia sono giunte alla conclusione, o almeno a uno snodo cruciale, due vicende molto diverse fra loro. Ma se per la prima storia questa conclusione sembra dischiudere una speranza, per la seconda appare simile a una pietra tombale.
Il 15 novembre gli ultimi 4 operai (all’inizio erano 6) sono scesi dalla gru dove stavano lottando per i diritti propri e di tutti i lavoratori migranti (e in fondo anche per i nostri). Il 16 novembre la corte d’Assise bresciana ha emesso il verdetto di primo grado sulla strage di Piazza della Loggia, avvenuta il 28 maggio 1974 (a pochi passi da dove abbiamo assistito alla protesta dei migranti) durante una manifestazione indetta in risposta a episodi di violenza neofascista: gli imputati sono stati tutti assolti.

Queste due storie sono distanti, per tematiche e contesto temporale. Sembrerebbero avere come solo comune denominatore la città in cui sono avvenute. Eppure tracciare un parallelo non è impossibile.
La più recente è una storia piccola e attuale, sospesa a 35 metri dal suolo, dal resto di un’Italia che preferirebbe non vederla. La più antica è appesa a un passato di ormai 36 anni fa. Ma anche questa sembra sospesa a tanti metri di altezza, lontano dagli occhi e dal cuore del Paese.
Nei giorni scorsi il PM Di Martino aveva iniziato la propria requisitoria con parole amare che oggi, dopo l’assoluzione, suonano profetiche: “Tra qualche giorno calerà il sipario su questo processo, celebrato su un palcoscenico abbastanza ristretto, che va poco al di là delle mura di questo palazzo: al di là della città di Brescia il processo non ha avuto ripercussioni. A questa indagine abbiamo dedicato uno spazio rilevante della nostra vita. Per cercare la verità…”.
Quasi uno sfogo umano di chi ha dedicato vent’anni allo studio degli atti, e forse s’aspettava un sussulto di dignità da parte di quei media molto attenti a seguire le cronache processuali (purchè si tratti di casi di “nera” che alzano l’audience…). Ma la disattenzione dei media è rimasta uno scoglio con cui si è scontrato il processo. E lo spazio dedicato alla sentenza non suona come un risarcimento, ma come un’ulteriore beffa. Del resto, per dirla ancora con le parole di Di Martino, “Questo è un processo che non piace, perché sono emerse cose che danno fastidio, che mettono in cattiva luce le istituzioni di allora. Ne esce un’immagine sconcertante: non c’è uomo dell’eversione di destra che non avesse un referente nei servizi segreti”. Parole che non sono scalfite dall’esito processuale.

Dopo un centinaio di udienze, in cui si sono vagliate le circa 800.000 pagine del fascicolo sulla strage e ascoltate numerosissime testimonianze, la corte ha dunque dato la propria risposta a carico dei 5 imputati rimasti (Giovanni Maifredi è deceduto nel 2009). Uomini dell’estrema destra come Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Pino Rauti; elementi ambigui come Maurizio Tramonte (“fonte Tritone” del SID); l’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino (capitano all’epoca dei fatti): tutti assolti, seppure con l’art 530 del codice di procedura penale, corrispondente alla vecchia “insufficienza di prove”.

Quasi quarant’anni fa Brescia seppe reagire alle provocazioni fasciste. La manifestazione del 28 maggio 1974 fu la risposta dei sindacati, degli antifascisti, dei lavoratori: la strage non tolse forza a quella risposta, semmai la rafforzò.
Oggi, una parte della stessa comunità si è mobilitata a sostegno di 6 operai. Con la stessa determinazione e la stessa dignità.
Nei prossimi giorni i “migranti della gru” conosceranno il proprio destino: resta alto il timore che possano essere espulsi. Anche la strage di piazza della Loggia avrà la propria risposta definitiva dai successivi gradi di giudizio, ma in questo caso l’attesa sarà più lunga e la speranza di un esito diverso da quello della corte d’Assise è assai esile.
Noi possiamo solo sperare che queste 2 battaglie siano vincenti. Che i “6 della gru” ottengano i propri diritti e i familiari delle vittime di piazza della Loggia, in una lotta che appare ancora più difficile, ottengano giustizia. Non sarà però l’esito a rendere utili o meno queste battaglie, ma la consapevolezza che si tratta di sfide entrambe attuali e patrimonio di tutti. La loro testimonianza passa anche attraverso queste parole e l’attenzione e la solidarietà che sapremo garantire. Ai “6 della gru” come ai familiari delle vittime della strage, ingiustamente feriti da questa sentenza.

Francesco “baro” Barilli

giovedì 4 novembre 2010

"Questa non si chiama giustizia". Intervista a Lucia Uva, sorella di Giuseppe "Pino" Uva

Varese, 14 giugno 2008. Sono circa le 3 di mattina quando Giuseppe Uva e Alberto Biggiogero vengono fermati, in stato di ebbrezza, dai carabinieri. Portati in caserma, Biggiogero sente le urla dell'amico provenire da un'altra stanza. Alle 5 i militari chiedono l'intervento di un'ambulanza. In ospedale richiedono un TSO e il trasferimento nel reparto psichiatrico, dove il 43enne Uva muore poche ore dopo per arresto cardiaco. Dagli esami tossicologici risultano somministrati farmaci controindicati in caso di assunzione di alcool. Sarebbe questa la causa del decesso, che lascia però aperte alcune domande: in primo luogo se Uva, fra le 3 e le 5 di quella mattina, abbia subito un assurdo pestaggio; in secondo luogo se i traumi eventualmente riportati abbiano contribuito a causarne la morte.
Su questi aspetti si è concentrata l'attenzione dei familiari, a cominciare dalla sorella Lucia, che non ha risparmiato critiche all'indirizzo dei pm titolari dell'inchiesta. Infatti, da quanto apprendiamo dal quotidiano La Provincia di Varese, la Procura sembra avere un orientamento diverso: i pm sono convinti che la sola causa della morte sarebbe da ricercarsi nella colpa di due medici, ossia nell'incauta somministrazione del tranquillante che avrebbe provocato l'arresto cardiaco. Sarà il giudice a stabilire, nell'udienza fissata al prossimo 1 dicembre, in merito al rinvio a giudizio, ma le premesse fanno supporre che il procedimento sarà incentrato solo sui due medici, inquadrando la morte di Giuseppe Uva in un "normale" caso di "malasanità".
Ciò nonostante, quella di "Pino" Uva è innanzitutto la storia di un uomo affidato alle mani dello Stato (nel suo caso prima ai carabinieri, poi a una struttura sanitaria) e riconsegnato morto ai propri familiari. Conseguentemente è un caso in cui, indipendentemente dall'accertamento di responsabilità penali, è legittimo attendersi risposte dallo Stato, contrassegnate dalla massima trasparenza. Tutte considerazioni che portano ad accostare la vicenda, pur con i necessari distinguo, a fatti più noti all'opinione pubblica (Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, per citare i due più significativi) in cui, al contrario, la trasparenza non ha contraddistinto l'azione dello Stato.
Di tutto questo parliamo con Lucia, sorella di Pino.

Tu quando e come hai saputo della morte di Giuseppe?

Quella mattina ero partita in vacanza con mia figlia Angela e i miei nipotini. Alle 7:15 ricevo una telefonata da mia sorella Mara: mi dice che Pino si trova in ospedale, mi racconta che lo avevano portato lì i carabinieri perché prima lo avevano fermato ubriaco, e poi l'avevano accompagnato nel reparto psichiatrico in quanto "sragionava". Ho risposto a Mara di andare subito in ospedale per vedere cosa stava succedendo e di farmi sapere...
Dopo, ricordo tante telefonate. All'inizio Mara mi ha tranquillizzata: "Lucia, stai tranquilla, Pino sta dormendo. Se senti come russa, sembrano mesi che non dorme!... Ci hanno detto di non svegliarlo e di ritornare oggi pomeriggio alle 3". Tutto questo verso le 10:00, ero appena arrivata al casello di Senigallia; poi alle 11:10 mi ha chiamato mio figlio Alessandro: "mamma, zia Carmela ti ha cercato... Zio Pino è morto...". Non potevo crederci, pensavo a uno scherzo e gli ho riattaccato il telefono in faccia. Subito dopo ho richiamato Mara che, piangendo, mi ha confermato la notizia. Alle 15:45 eravamo in obitorio.

Una volta giunta all'ospedale, hai potuto parlare solo con i medici, oppure sei riuscita a chiedere spiegazioni anche ai carabinieri che avevano arrestato Giuseppe?

A dire il vero con i medici non ho parlato, lo avevano già fatto le mie sorelle. Io alle 17 sono andata al posto di polizia del pronto soccorso, ma loro non sapevano nulla della morte di mio fratello, non erano stati avvertiti. Non sapevano neanche che era stato fatto un ricovero coatto, un Tso, con Pino accompagnato lì dagli agenti. So che l'ispettore Talotta ha fatto subito delle telefonate per avvertire il Magistrato di turno, che quella notte era Agostino Abate. Purtroppo da quel momento il dottor Abate non ha ancora fatto chiarezza sulla morte di Pino, a mio avviso.

Quale è stata la prima versione ufficiale?

Ci hanno detto che aveva avuto un arresto cardiaco, un infarto: questo è quanto ci hanno detto, tutto qui. Poi sono spariti tutti, non si è fatto trovare più nessuno...

So che quando hai visto il corpo hai avuto subito molti dubbi su quella versione...

Sì, quando l'ho visto Pino era irriconoscibile: pieno di botte, il corpo tutto viola, con escoriazioni su entrambe le gambe, la mano destra aveva una nocca enorme... Poi ricordo le sue costole, sul lato sinistro, che sporgevano fuori in modo innaturale. Il suo corpo era privo delle mutande, ma aveva invece un pannolone: quando gliel'ho tolto era sporco di sangue, i testicoli erano viola... Quel corpo me lo sono guardato tutto; non era quello di uno che poteva essersi prodotto le lesioni da solo (ti ricordo che si parlò molto di suoi gesti autolesionisti, per giustificare le ferite): si vedeva che quelle erano botte date di santa ragione... E poi dovrebbero spiegarmi come può riuscire uno a conciarsi così da solo, proprio mentre è controllato da tanti uomini in divisa. Mi sembra una ricostruzione priva di logica...

Cosa ti ha raccontato Alberto Biggiogero, circa quella notte?

Mi ha detto che quella sera lui e Pino avevano bevuto un pò ed erano in giro a festeggiare. Aveva vinto la Nazionale, e loro due, per gioco, stavano transennando la via Dandolo (il giorno dopo era la festa delle ciliegie). A un certo punto è arrivata una macchina dei carabinieri. Uno di questi conosceva Pino: mentre lo inseguiva gli ha urlato qualcosa tipo "Uva, proprio te cercavo stasera!". Dopo pochi minuti sono arrivate due vetture della polizia e tutti insieme sono andati in caserma; Alberto viene fatto entrare in una delle volanti della polizia, mentre fanno salire Pino nell'auto dei carabinieri. Dentro la caserma i due amici restano separati; Alberto è in una stanza, controllato a vista dagli agenti, e sente Giuseppe, in un'altra stanza, urlare "basta, basta". A un certo punto Alberto riesce ad approfittare della momentanea assenza degli agenti e chiama il 118 per chiedere aiuto, ma subito dopo i carabinieri hanno minimizzato al personale del 118 quanto stava accadendo ("sono solo due ubriachi...") e poi hanno tolto il cellulare ad Alberto...

Tramite il tuo avvocato, Fabio Anselmo, hai prodotto perizie di medici che sostengono la tesi secondo cui la morte fu causata non da errori medici (o almeno non solo da quelli), ma dai traumi che Pino avrebbe subito nelle ore precedenti il decesso. Cosa pensi della decisione del gup di non includere nel fascicolo quelle perizie?

Non posso accettare questa ricostruzione. Non è solo colpa dei medici, mi sembra una versione utile solo a nascondere la verità. A mio avviso il PM Abate ha voluto proteggere i carabinieri. Una cosa è certa: dopo 30 mesi non mi hanno ancora dato risposte. Cosa ci faceva Pino in caserma con 10 uomini in divisa? Perché aveva i pantaloni sporchi di sangue, dietro e davanti al cavallo? Perché era senza slip, e dove sono finiti? Perché il magistrato non ha fatto analizzare i pantaloni?
Nel "caso Uva" mi sembra abbiano fatto di tutto per nascondere quanto successo. Questa non si chiama Giustizia...

Qualora la magistratura confermasse la decisione di incentrare il processo solo sulla responsabilità dei medici, quali sarebbero i passi successivi che la vostra famiglia intende intraprendere?

Posso solo dirti che andremo avanti nell'impegno di scoprire la verità. Lo dobbiamo a Pino. Sicuramente in questa battaglia ci aiuterà Fabio, il nostro avvocato.

C'è un momento in cui hai deciso di far diventare pubblica la tua ricerca di verità?

Sì... Una sera stavo seguendo un servizio sul processo per l'uccisione di Federico Aldrovandi. Rimasi sconvolta, perché sentivo le versioni dei poliziotti: erano le stesse cattiverie e falsità che avevo sentito dire su mio fratello. Le solite cose: le lesioni alle vittime attribuite ad autolesionismo, insinuazioni sul loro stile di vita (il tossico, l'ubriacone...), la negazione dell'evidenza...
La mattina dopo chiamai Lino, il papà del povero Federico, gli dissi che anch'io stavo vivendo una tragedia come la loro, gli raccontai la mia storia e chiesi consiglio su cosa potevo fare. Mi rispose di cercare di farmi ascoltare dai giornalisti della mia città, di chiamare Beppe Grillo, di non arrendermi... Poi ricordo una domenica, quando sentii la vicenda di Stefano Cucchi: il lunedì chiamai Rita Cucchi e anche a lei dissi che stavo vivendo lo stesso dolore. Pure lei mi disse "devi denunciare, non dobbiamo arrenderci!". E così ho ricominciato da capo la mia battaglia.
Sono andata a Ferrara da Fabio Anselmo (che era già l'avvocato delle famiglie Cucchi e Aldrovandi). Lui, dopo aver visto i pochi fogli del fascicolo su mio fratello, si è impegnato subito per fare ripartire le indagini: dopo 24 mesi in cui non era stato fatto quasi niente, lui in pochi mesi è riuscito a smuovere quei PM dal loro torpore. Devo un grosso grazie a lui e anche, voglio ricordarlo, a Luigi Manconi.
Ora vediamo cosa succederà... Io dico solo che mio fratello, come tutte le altre "vittime di stato", merita giustizia. E ti dirò che, secondo me, non è solo una questione di giustizia, ma di dignità: una dignità che va restituita a Pino e a tutti quelli come lui, prima ammazzati e poi ricoperti di fango...

Francesco "baro" Barilli, 2 novembre 2010

domenica 31 ottobre 2010

Calendario Memoria resistente 2011



Quella che vedete qui sopra è la manchette del calendario “Memoria resistente 2011”.
Non ho molto da aggiungere (l’immagine dice già tutto), se non ringraziare chi ha illustrato il calendario:

Gennaio: Christian Mirra

Febbraio: Lorenzo Ragno Celli

Marzo: Maurizio Ribichini

Aprile: Claudio Stassi

Maggio: Matteo Fenoglio

Giugno: Gianluca Romano

Luglio: Manuel De Carli

Agosto: Sylvie Bello

Settembre: Alessio Spataro

Ottobre: Toni Bruno

Novembre: Marco Paci

Dicembre: Cristina Spanò

Come abbiamo scritto nella pagina introduttiva: “Gli illustratori che hanno contribuito a questo calendario in molti casi hanno già lavorato o stanno lavorando su propri progetti riguardanti le stesse tematiche. Altri si sono proposti per la prima volta in questa direzione. Tutti hanno offerto il loro impegno con entusiasmo e gratuitamente (a loro va il nostro ringraziamento) e tutti hanno presentato una propria interpretazione, offrendo così una varietà di proposte stilistiche che costituisce il valore aggiunto di questo lavoro”.

Francesco “baro” Barilli



mercoledì 6 ottobre 2010

Ricordo di Francesca Dendena (associazione vittime strage di Piazza Fontana)

E’ morta questa mattina Francesca Dendena, storica rappresentante dell’associazione vittime della strage di Piazza Fontana. Aveva perso il padre, Pietro, nella “madre di tutte le stragi”, snodo cruciale della strategia della tensione. Il 12 dicembre 69 Francesca era un’adolescente, ma da allora e per i quarant’anni successivi si è distinta per lucidità e determinazione nella battaglia di verità e giustizia.
L’avevo incontrata nel marzo 2009, a casa sua. Era già ammalata, ma combattiva come sempre. “Devo partire da un aneddoto di quarant’anni fa, quando andammo a recuperare la macchina di mio padre. Già allora incontrammo alcuni giornalisti e a me – forse per esuberanza giovanile – venne spontaneo dire: mai più… Una cosa del genere non dovrà più succedere. E io, dicevo a me stessa, avrei dovuto impegnarmi affinché un’esperienza così terribile non dovesse capitare ad altri”.
Quel giorno dovevo intervistarla per il libro che stavo curando con Matteo Fenoglio sulla strage, che sarebbe uscito pochi mesi dopo (“Piazza Fontana”, ed. BeccoGiallo). Le avevo fatto leggere la prima bozza della sceneggiatura, e nel fumetto aveva notato una citazione dell’intervista che mi aveva concesso nel 2005, a pochi giorni dalla sentenza “tombale” della Cassazione (un verdetto che, pur riconoscendo le responsabilità della destra eversiva, aveva mandato assolti gli imputati). Proprio la vicinanza temporale a quella sentenza aveva portato Franca a parole amare: “Se penso a questo, al dolore dei parenti delle vittime, a tutte le battaglie fatte per avere giustizia, viene spontaneo dire: hanno vinto loro, quelli che hanno voluto le stragi…”. Nel marzo 2009, rileggendo quelle parole, aveva commentato: “dovevo essere proprio demoralizzata, in quel periodo!”.
Entrambi gli aneddoti possono far capire il temperamento e il livello di impegno civile di Franca. Quella battaglia di verità e giustizia, per lei, trascendeva il livello personale e la sentiva un dovere civile. Inoltre, considerava quello sfogo amaro non del tutto veritiero: “noi non ci siamo mai fermati. Ed abbiamo continuato a chiedere risposte, anche e soprattutto a quelle istituzioni da cui ci sentivamo delusi. … Credo che se certi risultati li abbiamo ottenuti lo dobbiamo proprio alla caparbietà di chi non si è mai arreso, anche continuando a chiedere risposte alle istituzioni. Risultati incompleti, certo, ma da non sottovalutare. … Recentemente ci siamo costituiti formalmente anche in un’associazione nostra: ‘Piazza Fontana 12 dicembre 1969. Centro studi e iniziative sulle stragi politiche degli anni ‘70’. Abbiamo deciso che dopo la sentenza questo sarà il nostro compito: continuare a raccontare la storia del 12 dicembre, innanzitutto nelle scuole… Tutto questo per far sì che nulla di questa vicenda venga distorto, per far sì che non ci sia più nessuno che dimentichi che questo è stato un Paese dove le stragi di cittadini innocenti sono state un mezzo usato per indirizzare la politica. Abbiamo deciso di farlo solo ora, e può sembrare strano, a quarant’anni dai fatti. In realtà abbiamo pensato che questo può essere lo strumento più adatto per proseguire nel nostro compito, che è anche una sorta di passaggio del testimone della memoria alle prossime generazioni”.

Mi piace chiudere questo ricordo proprio con quella sua frase sul “passaggio del testimone”, ancora più significativa oggi, dopo la scomparsa di Franca.
Le rivolgo un ultimo saluto, consapevole che la sua battaglia deve continuare proprio perché interesse di tutti. Il migliore messaggio ai suoi familiari (e a tutti i componenti dell’associazione) oltre a un affettuoso abbraccio è assicurare che da parte nostra non resteranno soli in quell’impegno.

Francesco “baro” Barilli

lunedì 4 ottobre 2010

Riflessioni e proposte sulla futura associazione “vittime delle forze dell’ordine”

Nel quinto anniversario dell’uccisione di Federico Aldrovandi, a Ferrara si sono riuniti i familiari di alcune “vittime di stato”, ragazzi uccisi in vicende riconducibili, direttamente o indirettamente, a “malapolizia”. Negli interventi una frase è ricorsa ripetutamente: “queste cose non devono più succedere”. Parole che fanno tornare alla mente la petizione “mai più come al G8”, promossa dai comitati Piazza Carlo Giuliani e Verità e Giustizia per Genova, e consegnata al Senato il 30 giugno 2005.
Riflettere sull’analogia, su questo auspicio comune alle due occasioni (“casi del genere non si ripetano più”) è agghiacciante se si pensa che il 25 settembre al tavolo dei relatori erano presenti testimoni di casi tutti successivi al G8 genovese e a quella petizione (ovviamente con l’eccezione di Haidi Gaggio Giuliani, la prima ad attivarsi, dopo il 20 luglio 2001 affinchè nascesse una rete di relazioni fra le “vittime di stato”).
La prima, e amara, constatazione conseguente è che quanto fatto finora è stato insufficiente. La seconda, più importante, è che affermare “queste cose non devono più accadere” deve essere il terminale – e non la partenza – di un percorso, fatto di proposte e iniziative che, partendo dal basso, obblighino la politica a scelte responsabili e concrete. Proposte che, ad onor del vero, con poche integrazioni potrebbero essere proprio quelle della petizione del 2005, che finora hanno trovato poco spazio sulla scena politica. Del resto è noto ad esempio, e ne ho scritto in passato, il rifiuto del governo di aderire ad alcune raccomandazioni del Consiglio dei diritti umani dell’Onu, fra cui l’inserimento del reato di tortura nel nostro ordinamento. Ma va ricordato che l’Italia “fa spallucce” sull’argomento da più di vent’anni: la convenzione delle Nazioni Unite fu firmata nel 1984 e ratificata dall’Italia nel 1989. Questo per dire che l’ignavia del mondo politico è trasversale e tutt’altro che recente, fatte salve lodevoli eccezioni.

Proprio la politica è stata una sorta di spettro incombente, sul convegno di Ferrara e sull’idea che i familiari si riuniscano in un’associazione rendendo stabile e formale quella rete già esistente nei fatti e nei rapporti umani. Alcuni preferirebbero un approccio totalmente estraneo ad essa, in base a una sfiducia verso “il palazzo” che, va detto, è tutt’altro che infondata. Altri temono, anch’essi a ragione, di essere strumentalizzati.
Se sfiducia e timore sono comprensibili e, in certa misura, condivisibili, non devono però costituire un ostacolo al rapporto che, inevitabilmente, dovrà stabilirsi fra l’associazione e la politica, perché solo attraverso questo si potrà passare da una fase puramente rivendicativa all’ottenimento di risultati concreti. Il punto, semmai, è come costituire questo rapporto: su che basi? Con quali rapporti di forza?
La risposta in realtà è una sola: sarà l’associazione a dover tenere in mano bussola e timone del percorso, avanzando le proprie proposte senza che nessuno possa tentare di “metterci sopra il cappello”; i politici che aderiranno saranno solo l’interfaccia con le istituzioni.
Mi si potrebbe obbiettare che questo costituisce una sorta di strumentalizzazione al contrario, ma personalmente non mi sembra un problema. Ritengo infatti che i genitori di Aldrovandi e gli altri presenti a Ferrara non debbano sentirsi (o essere trattati come) “questuanti alla corte del re”, né semplicemente  persone da risarcire (in senso etico, s’intende) per “farli tacere”, ma – innanzitutto – cittadini. Ossia cellula fondamentale (e sovrana…) proprio di quell’entità collettiva chiamata Stato che, invece di tutelarli, li ha così tragicamente colpiti. E’ dunque sacrosanto che, in una democrazia rappresentativa, i cittadini “utilizzino” chi dovrebbe rappresentarli. Che purtroppo avvenga sovente il contrario è una constatazione amara che non nega l’assunto precedente; semmai lo rafforza, evidenziando il degrado della vita politica, argomento su cui c’è molto da dire ma ci porterebbe fuori tema.

Dunque, non devono esserci remore etiche da parte dell’associazione nello “strumentalizzare” (in senso etimologico: utilizzare qualcuno per il raggiungimento di un fine) i politici. L’operazione in senso contrario andrà sventata, ma prima bisogna essere consapevoli della sua duplice versione.
Sulla prima (i politici che tenteranno di “mettere il cappello” sulle proposte dell’associazione) ho già detto. La seconda è più insidiosa e speculare alla prima: alcuni sottolineeranno che tali proposte (per citarne due scontate: inserimento del reato di tortura e codici di riconoscibilità delle forze dell’ordine) sono già state avanzate dalla sinistra, e nel migliore dei casi sosterranno che i familiari delle vittime sono inconsapevoli strumenti di una battaglia di parte. Credo stia all’associazione riuscire a connotare le proprie proposte come un fatto di civiltà che prescinde dagli schieramenti.
Mi sia consentita però una riflessione a margine. Non credo che l’indipendenza dalla politica sia un valore assoluto e non ho mai trovato la parola “bipartisan” particolarmente attraente. Peraltro, l’opposto di bipartisan è partigiano, termine che pure nel Paese bislacco che è diventato l’Italia dovrebbe rappresentare qualcosa di cui andare fieri. Incidentalmente, è il caso di ricordare che il 25 settembre, oltre a ricorrere l’anniversario dell’uccisione di Aldro, è la data di nascita (nel 1896) di Sandro Pertini. So che non c’entra nulla, ma cito la coincidenza per due motivi. In primo luogo, è il mio modo di ricordare (seppure in modo “ingenuo”, ma visto che nessuno l’ha fatto va bene anche così…) il più grande Presidente che l’Italia abbia avuto. In secondo luogo, si tratta di sottolineare che certe proposte non sono “di tutti”, ma patrimonio culturale di una parte. Se su di esse si raccoglierà un consenso ampio e trasversale, se una petizione della futura associazione sarà sostenuta da esponenti del centrodestra, non lo troverò né spiacevole né paradossale ed accoglierò quel sostegno con soddisfazione. Ma, allo stato attuale, è doveroso ricordare che per la destra – almeno in Italia – esiste un problema culturale nel rapporto verso le forze dell’ordine, quasi una sudditanza acritica. Prese di posizione personali di segno contrario non vanno negate e sono da guardare con rispetto, ma per dirsi colmata quella distanza culturale ci vorrà tempo. Sarei lieto se proprio l’associazione fosse la scintilla che consentirà di innescare quel percorso.

Per entrare ancor più nel merito delle proposte da avanzare, sono costretto ad un’ulteriore riflessione, forse un’altra divagazione.
Molto spesso, nei casi Aldrovandi, Cucchi eccetera, la discussione si incaglia spesso sul cosiddetto tema delle mele marce e sulla sostanziale integrità delle istituzioni cui si dovrebbe rispetto (“a prescindere”, direbbe Totò) e chi mette in discussione la doverosità o l’automatismo di quel rispetto viene additato come pericoloso sovversivo. Trovo tutto questo fuorviante: sono le istituzioni a essere a servizio dei cittadini, a dover rappresentare e rispettare i cittadini, e non viceversa. Se con rispetto delle istituzioni si intende il riguardo dovuto alle forme e alla sostanza della democrazia che le genera, bene (in fondo, in questo senso i cittadini rispettano se stessi…); se invece si intende la venerazione di un Totem, di una sorta di divinità “superiore” e distante dalla gente, nulla potrebbe interessarmi di meno.
Riguardo le mele marce, poi, ritengo stucchevole interrogarsi se nel cesto esse siano 2, 3 o 8 su 10. Nel banale esempio ortofrutticolo, nessuno si sognerebbe di chiedere spiegazioni alle mele (marce o sane), ma parlerebbe direttamente al contadino che sovrintende al frutteto, col dovere di mettere sul mercato solo i frutti sani. Certo, sarebbe buona cosa avere la garanzia che questo abbia l’onestà di non farci pagare la frutta immangiabile, ma meglio sarebbe sapere che ad ogni raccolto farà di tutto affinchè sul mercato arrivino solo prodotti buoni.
L’esempio, l’ammetto, è assai privo di originalità, ma serve per ricordare un elemento quasi mai affrontato quando si parla di “vittime di stato”: la necessità di una formazione preventiva delle forze dell’ordine (la categoria va intesa in senso più ampio: polizia, carabinieri, ma pure agenti penitenziari ecc) alla cultura del dialogo, alla consapevolezza della responsabilità nell’utilizzo della forza, ai principi della nonviolenza.
In altre parole, sarebbe già un passo avanti sapere che le mele marce non debbano più godere di sacche di impunità, ma sarebbe assai più confortante se ad ogni raccolto si vigilasse affinchè queste non debbano nuovamente infettare il cesto. La certezza della fine dell’impunibilità è sacrosanta, ma non basta se si limita a stabilire che d’ora in poi gli abusi saranno puntualmente puniti; molto meglio attrezzarsi affinchè gli abusi vengano impediti. Gli aspiranti “Rambo” non solo devono sapere che loro comportamenti scorretti non saranno tollerati, ma soprattutto devono essere consapevoli, preventivamente, che non troveranno più nelle forze dell’ordine uno spazio accogliente.

Se le premesse di questo mio intervento sono state lunghe (ma, ritengo, necessarie), molto più breve è l’elenco delle proposte a mio avviso da avanzare; ad alcune ho già accennato e in sostanza sono quelle su cui si ragionava già ai tempi della petizione “mai più come al G8”:
- adeguare il nostro ordinamento alle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, introducendo il reato di tortura.
- L'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sui fatti avvenuti nel 2001, durante il vertice G8 di Genova e, precedentemente, il Global Forum di Napoli.
- Formazione professionale delle forze dell’ordine finalizzata a promuovere una coscienza civica e deontologica conforme a funzioni difensive e nonviolente.
- L'impegno alla esclusione dell'utilizzo nei servizi di ordine pubblico di sostanze chimiche incapacitanti e circa una moratoria nell'utilizzo dei GAS CS.
- La definizione di regole per consentire la riconoscibilità degli operatori delle forze dell'ordine.

A queste, aggiungerei almeno le seguenti:
- l'istituzione di un organismo "terzo" che vigili sull'operato dei corpi di polizia (un po’ sulla falsariga della commissione che vigila sugli episodi di “malasanità”).
- Stabilire che nei casi in cui un cittadino segnali un qualsivoglia addebito a carico di un esponente delle forze di polizia le indagini siano affidate a una struttura che garantisca imparzialità e terzietà, e non dagli stessi colleghi di chi è sottoposto ad indagine.
- Rendere indipendenti le indagini amministrative da quelle penali. Troppe volte, infatti, è successo che a fronte di denunce i vertici delle forze dell’ordine si trincerassero dietro l’attesa delle decisioni della magistratura per non intraprendere azioni disciplinari (sospensioni dal servizio e simili).

Sicuramente c’è altro da aggiungere. Vorrei che si prendesse il mio intervento come un semplice contributo, qualcosa, spero utile, su cui ragionare per cominciare una discussione sull’argomento.

Francesco “baro” Barilli

martedì 13 luglio 2010

La morte di Giorgio Alpi

Domenica 11 luglio è morto Giorgio Alpi, padre di Ilaria, la giornalista del TG3 uccisa assieme a Miran Hrovatin a Mogadiscio il 20 marzo 1994.
Ho conosciuto Giorgio nel settembre 2003, quando lo intervistai assieme alla moglie Luciana. Fu lei a farmi notare le immagini che ritraevano Ilaria in quel soggiorno: erano state scattate da Raffaele Ciriello, ucciso a Ramallah da militari israeliani il 13 marzo 2002. “Anche per la sua morte, una morte ‘strana’ e tremenda come quella di Ilaria, non c'è giustizia...”, disse Giorgio.
Raccontai che, quando avevo cercato articoli per documentarmi sull’omicidio Alpi/Hrovatin, mi ero imbattuto in un pezzo pubblicato da Epoca pochi mesi dopo l’omicidio; era firmato da Maria Grazia Cutuli, a sua volta uccisa in un agguato in Afghanistan il 19 novembre 2001. Fu ancora Giorgio a dirmi “a proposito della Cutuli, l'articolo che scrisse pochi mesi dopo parlava di ‘una verità che non ci sarà mai...’. Mi sembrò strano sentire una cosa del genere detta da una giovane giornalista che parlava di una sua collega. E pensare questo a distanza di tempo, quando pensiamo alle ‘verità che non ci saranno mai’ anche per Ciriello o la Cutuli ci fa davvero un'enorme impressione...”.
Oggi si può davvero dire che purtroppo Giorgio non potrà conoscere la verità sulla morte della figlia, ed è per questo che ripenso a quelle sue parole. E il dolore per la sua morte aumenta, al pensiero degli ultimi 16 anni in cui lui e Luciana hanno combattuto nella ricerca di quella giustizia che altri non hanno saputo o voluto cercare. Può sembrare un frase abusata, ma condivido quanto scritto da Mariangela Gritta Grainer, portavoce dell’associazione Ilaria Alpi: i genitori di Ilaria sono stati, e Luciana lo è tuttora, un simbolo di impegno civile, un esempio per tutti.
Giorgio l’ho sentito l’ultima volta nel 2007, poco tempo dopo l’uscita di “Ilaria Alpi – il prezzo della verità”, libro a fumetti di Marco Rizzo e Francesco Ripoli, edito dalla BeccoGiallo, di cui avevo curato l’apparato redazionale. Era contento del lavoro. “E’ difficile parlare per chi non c’è più, ma mia figlia la conoscevo bene, e penso proprio che le sarebbe piaciuto”, mi disse con emozione. Non lo racconto per autocitazionismo, anche perché in quel momento ricevevo una gratitudine che andava indirizzata molto più a Marco e Francesco che non a me. Lo racconto perché quell’episodio, oltre ad essere uno di quelli che “ti scaldano il cuore”, è significativo di ciò che è stata la vita e l’impegno di Giorgio negli ultimi anni. Di come ha vissuto ogni singolo giorno dal 20 marzo 1994. Della dignità e della fermezza con cui ha affrontato la sua lotta.
Gli rivolgo un ultimo saluto, nella consapevolezza che quella battaglia non era solo sua e della moglie, ma interesse di tutti quelli per cui parole come verità e giustizia hanno ancora un valore che va al di là della vuota retorica. Il migliore messaggio a Luciana, oltre a un affettuoso abbraccio, è adoperarsi affinchè non resti sola in quell’impegno.

Francesco “baro” Barilli

venerdì 25 giugno 2010

La tortura in Italia: un problema mai affrontato

Recentemente si è parlato del rifiuto da parte del governo di aderire ad alcune raccomandazioni del Consiglio dei diritti umani dell’Onu, fra cui l’inserimento del reato di tortura nel nostro ordinamento. Non se n’è parlato molto, a dire il vero, e pure quando lo si è fatto si sono registrate omissioni e imprecisioni.
Innanzitutto va precisato che nell’occasione ha suscitato scalpore il rifiuto opposto a una sollecitazione esplicita, ma l’Italia “fa spallucce” sul reato di tortura da più di vent’anni: la convenzione delle Nazioni Unite fu firmata nel 1984 e ratificata dall’Italia nel 1989. L’ignavia del mondo politico è dunque trasversale e tutt’altro che recente, anche se va ricordato che l’attuale centrodestra seppe distinguersi negativamente già nel 2004: alcuni ricoderanno le polemiche nate da un emendamento leghista che voleva che fossero definite torture le violenze e le minacce solo se “reiterate”.
L’argomento viene periodicamente ripreso, anche se con poco vigore, dagli organi di stampa. I fatti più recenti sono i casi Cucchi, Gugliotta, Uva; precedentemente se n’è parlato per le violenze alle caserme Raniero e Bolzaneto (dove, va ricordato, i giudici hanno rimarcato che la mancanza di quel reato ha comportato una ridefinizione “al ribasso” delle contestazioni agli imputati).
Ma possiamo andare anche più indietro nel tempo. Sommariamente ai primi anni ’80, quando per affrontare l’emergenza terrorismo lo Stato non si mostrò semplicemente “forte” (come vuole la retorica ufficiale, nell’ansia semplicistica di ricondurre quella stagione a una lotta del “bene” contro il “male”), ma si spinse sulla strada della ferocia. Questa degenerazione fu in parte palese, e portò a disposizioni che andarono a restringere la sfera dei diritti individuali, in parte sotterranea e sfociò nella pratica della tortura.
Nel 1982 l’allora ministro dell’interno Rognoni dovette rispondere a interrogazioni che possiamo riassumere in una sola: per battere il terrorismo erano stati superati i limiti posti come base della democrazia e dello stato di diritto? La risposta del ministro fu negativa. Del resto anche George W. Bush nel novembre 2005 disse perentoriamente “Noi non torturiamo”, incurante delle smentite fattuali avvenute prima e dopo quell’affermazione. Successivamente ammise di essere stato a conoscenza delle tecniche di interrogatorio usate nella lotta al terrorismo e di averle avallate. Si tratta di metodi (il più famoso è il waterboarding) sicuramente definibili come torture, ma dichiarati ammissibili “in punta di diritto” dall’amministrazione statunitense. Del resto già Blaise Pascal denunciava come la forza possa sostituirsi al diritto: “Non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto”.
Tornando all’Italia degli anni ‘80, il numero e l’omogeneità delle denunce possono portare a una conclusione: le torture furono il frutto di una strategia, seppure non usata con continuità, tollerata in quanto l’efficacia dell’azione poteva andare a discapito dei principi. E si deve riflettere sulla circostanza che, sia nell’Italia di quel periodo sia negli USA della recente guerra al terrorismo, le torture sono state precedute dal restringimento normativo dei diritti. Dell’Italia si è già accennato; negli USA, Abu Ghraib e Guantanamo hanno seguito temporalmente il Patriot Act: le torture sono sempre conseguenza di un impalcato normativo emergenziale.
Può essere poco “politicamente corretto” ricordare le sevizie subite da alcuni terroristi nel periodo finale dei cosiddetti anni di piombo, ma va fatto, senza che questo significhi una giustificazione dell’operato di brigatisti e affini, se si vuole capire l’origine del “problema tortura” in Italia. Per questo ho voluto soffermarmi su questo aspetto, dimenticato e mai veramente affrontato. Non m’interessa chiedermi se quei metodi fossero o meno necessari: mi basta non farli cadere nel dimenticatoio. Non m’interessa analizzare se le mani che hanno contribuito a sconfiggere la lotta armata dovevano necessariamente affondare nel sangue o se potevano evitarlo: mi basta denunciare che l’hanno fatto, e ricordare che conseguentemente oggi non possono pretendere di profumare di mughetto.
In fondo, la tortura può essere efficacemente sintetizzata con questa frase di Leonardo Sciascia, terribilmente attuale: “Non c’è paese al mondo che ormai ammetta nelle proprie leggi la tortura: ma di fatto sono pochi quelli in cui le polizie, sottopolizie e criptopolizie non la pratichino. Nei paesi scarsamente sensibili al diritto – anche quando se ne proclamano antesignani e custodi – il fatto che la tortura non appartenga più alla legge ha conferito al praticarla occultamente uno sconfinato arbitrio”.

Francesco “baro” Barilli

giovedì 27 maggio 2010

Piazza della Loggia e un Paese che non chiude i conti con la Storia



La tavola che vedete qui sopra è la testimonianza mia e di Matteo Fenoglio per l'anniversario della strage di Piazza della Loggia, che cade domani.

E' stata pubblicata sull'Unità di oggi, unitamente ad un nostro articolo (che riporto di seguito e che spiega le nostre intenzioni):

Piazza della Loggia e un Paese che non chiude i conti con la Storia

Il 12 dicembre 2009 Radio 3 ha dedicato una lunga diretta al quarantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana. Nel finale della trasmissione si sono ascoltate le testimonianze raccolte fra gli universitari milanesi. Voci sconcertanti: chi addebitava la strage alle BR, chi addirittura all’estremismo islamico. Già nel 2004 e nel 2005 due sondaggi, condotti fra gli studenti delle scuole superiori di Brescia e Bologna, hanno fornito risultati analoghi. Poche le risposte corrette, molti “non sa o non risponde”, poca consapevolezza dei contesti storici, le rispettive stragi addossate con alte percentuali al terrorismo “rosso” o a matrici stravaganti. Le voci degli studenti milanesi non erano dunque una novità. Ma il sapore era ugualmente amaro, specie in quella ricorrenza.
Il nostro Paese per anni ha avuto una “Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi”. E la Legge n. 56 del 2007 ha individuato nel 9 maggio, anniversario dell'uccisione di Aldo Moro, il "Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice”. Leggere quelle due formule macchinose fa capire quanto sia faticoso ottenere la “memoria condivisa” di cui tanto si parla. Una fatica ancora più evidente se pensiamo che quella Commissione, dopo anni di lavoro, non è giunta a un documento conclusivo. Dopo sei decenni di vita repubblicana l’Italia non sa chiudere i conti con la propria storia.
Licia Pinelli, nella lunga intervista rilasciata a Piero Scaramucci (“Una storia quasi soltanto mia” – Feltrinelli) ha detto: “Avere giustizia è che tutti sappiano la verità”. Quella frase, oltre ad esprimere un senso nobile e “diverso” della parola giustizia, ci dice due cose: che l’ignoranza dei giovani sulle stragi italiane è più di una semplice mancanza generazionale; e, rovesciandone i termini, che la più grande forma d’ingiustizia è lasciare che nessuno sappia la verità.
Eppure, come data simbolo di quella stagione si è scelto un episodio segnato dalla matrice brigatista, su cui la consapevolezza storica appare consolidata e l'azione di condanna, giudiziaria e politica, è giunta a compimento, a differenza del precedente periodo stragista. Uno “strabismo del ricordo” che non sottolineiamo per sminuire la portata storica del "terrorismo rosso", né per smorzare lo sdegno per la violenza brigatista. Questo sarebbe indecente in una giornata come quella odierna, in cui si ricordano due tragedie dall’opposta matrice: la strage di Piazza della Loggia e l’omicidio di Walter Tobagi. Semplicemente, la memoria degli anni ’70 o è completa o resterà un’immagine parziale e distorta.
Proprio dopo l’anniversario di Piazza Fontana alcuni hanno ricordato che è tuttora in corso il processo per la strage di Brescia, chiedendo che di questo processo si parli. Voci autorevoli, ma non hanno avuto seguito. Anche in occasione della testimonianza di Angelo Izzo le cronache si sono limitate alla morbosa curiosità per il passato del “mostro del Circeo”. Nessun accenno alla strage o al processo dove, senza volerne anticipare gli esiti sul piano delle responsabilità personali, si presenta un impianto d’accusa inquietante e ricorrente in analoghi episodi: un nucleo operativo dell’eversione neofascista, l’intesa con uomini dei servizi segreti, la copertura di apparati politici e militari. Alla sbarra come imputati, fermo restando il principio di innocenza fino all’emissione del verdetto definitivo, uomini dell’estrema destra italiana, noti e meno noti, come Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Pino Rauti, Giovanni Maifredi (già deceduto); elementi ambigui, la cui classificazione ondeggia fra l’estrema destra e i servizi segreti, come Maurizio Tramonte (la cosiddetta “fonte Tritone” del SID); l’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino (capitano all’epoca dei fatti).
Abbiamo assistito ad alcune udienze di questo processo. A parte la nutrita schiera degli avvocati sono presenti i familiari delle vittime, alcuni mediattivisti che meritoriamente seguono la vicenda su Facebook, cronisti di quotidiani bresciani. Il processo sembra un fatto di cronaca locale, non un pezzo di storia italiana…
Tutte considerazioni che ci portano a questo articolo. Realizzato per l’anniversario di Piazza della Loggia, ma pensato nel giorno della memoria, che dovrebbe avere come primo obbiettivo il ricordo non come gesto estemporaneo e puramente commemorativo, ma come segno di partecipazione civile alla Storia del Paese.
Ricordare oggi la strage di Brescia come fatto attuale e come ferita viva nel corpo del Paese, e non come mistero a cui rassegnarsi, è un segnale che avrà un significato solo se non resterà isolato. Solo allora si potrà davvero parlare di una memoria condivisa che unisce non solo tutte le vittime di quella stagione, ma l’intera nazione.

Francesco “baro” Barilli e Matteo Fenoglio

*******

Un grosso grazie a Guido e Federico del BeccoGiallo, e alla redazione dell'Unità!!!

venerdì 14 maggio 2010

Violenze e impunità: da Stefano Gugliotta al rimosso di Genova

Ultimamente i media nazionali hanno dato spazio a vicende che, al di là di contesti ed epiloghi diversi, ruotano attorno a violenze delle forze dell’ordine, da Cucchi a Gugliotta. Questi fatti sono persino riusciti a fare da traino ad altri del passato (tornati ad apparire o apparsi per la prima volta sui giornali) e in una certa misura ad aprire un dibattito su un tema che in Italia sembrava essere un tabù: gli abusi delle forze di polizia. Tutto questo è positivo, ma vorrei sottolineare almeno una stonatura e una dimenticanza.
La stonatura è data dalla tendenza a evidenziare le “vite normali” dei ragazzi recentemente uccisi o malmenati. L’opinione pubblica, piegata dall’ossessione della sicurezza, è più incline a commuoversi di fronte a un “bravo ragazzo” picchiato o ucciso. Quando la stessa sorte capita a un criminale, o anche solo a uno di quei soggetti considerati diversi o marginali, la partecipazione si ferma; a volte scatta addirittura il meccanismo del “se l’è cercata” o “in fondo gli sta bene”. La circostanza può portare a diverse riflessioni, ma almeno una mi sembra fondamentale: lo smarrimento del concetto di “diritti inalienabili dell’individuo”. Inalienabili, ossia inscindibilmente legati all’essere umano, indipendentemente dalla sua moralità o da suoi comportamenti anche odiosi. Proprio il fatto che le vittime degli ultimi abusi siano stati sovente ragazzi “normali” dovrebbe farci capire quanto ogni cedimento su questo piano sia pericoloso. I diritti non hanno nove vite come i gatti; ne hanno una, molto fragile. Ci vogliono secoli per conquistarli e poco per smarrirli, con conseguenze drammatiche per tutti.
La dimenticanza la segnalo grazie a un articolo firmato da Francesco Merlo su Repubblica, “Quei ragazzi picchiati per la loro innocenza”. Un articolo condivisibile e persino lodevole, per la chiarezza con cui sottolinea, all’interno delle forze di polizia, colpe e obblighi NON delle sole mele marce, ma di quelle sane (“Sarebbe dunque necessario che ora la polizia indagasse sulla polizia, che riflettesse sul reclutamento, che denunziasse se stessa”). Sui maggiori quotidiani Merlo è anche uno dei pochi, forse l’unico, a citare i fatti di Genova nell’elenco di abusi che hanno preceduto il caso Gugliotta. Ma lo fa con una grossa imprecisione: “la polizia italiana … a Genova si permise abusi e violenze che rimasero comunque isolati e che stavano dentro gli scontri di piazza … Invece qui ci sono agenti che si abbandonano all’odio contro i fermati, contro gli indifesi, contro quelli che dovrebbero tutelare anche quando devono reprimerli”.
Se parliamo di odio contro i fermati e di violenze verso soggetti ormai indifesi, mi sembra che il paragone fra i casi recenti e i fatti di strada del luglio genovese ci stia tutto. Ma il paragone, sotto questo profilo, si fa ancora più calzante se parliamo della Diaz e soprattutto di Bolzaneto. Dove, è bene ricordarlo, le violenze furono riservate a persone già fermate e in attesa di essere tradotte in carcere: il parallelo con le vicende Cucchi o Gugliotta si fa ancora più calzante.
Genova quindi, da vicenda-simbolo delle violenze delle forze di polizia (nonché dell’impunità e della scarsa capacità, giustamente stigmatizzata da Merlo, degli apparati dello Stato nell’indagare su se stessi) è diventata una gigantesca rimozione. E così si perde un nesso causale fondamentale: gli abusi di oggi sono figli di un’involuzione delle forze dell’ordine, a sua volta figlia di un percorso culturale che ha sancito il declassamento dei diritti nelle priorità dei cittadini e della politica.
Una rimozione ancora più amara se pensiamo che il 18 maggio sarà emessa la sentenza di appello per i fatti della scuola Diaz. Per quelle 93 persone picchiate e arrestate con accuse false la sentenza di primo grado ha portato a 13 condanne e 16 assoluzioni, ma senza che ci sia mai stata una presa di distanza o un’autocritica da parte dei vertici, della polizia o delle Istituzioni in generale, verso le violenze commesse.
Sarebbe opportuno che, indipendentemente da quello che sarà il verdetto, la politica e i media nazionali dimostrassero in occasione della nuova sentenza-Diaz almeno la sensibilità dimostrata verso i casi Cucchi e Gugliotta: oltre a costituire un parziale e tardivo risarcimento per i fatti genovesi, sarebbe la migliore dimostrazione di una sincera volontà a far sì che queste vicende non si ripetano.

Francesco “baro” Barilli

martedì 20 aprile 2010

“Piazza Fontana”: la recensione su “Fumetto d’Autore” e la mia risposta

Negli ultimi mesi ho segnalato tutte le recensioni scritte su Piazza Fontana (quelle a me note, ovviamente). Segnalo ora la più recente, che è pure la prima negativa (totalmente o quasi). La trovate qui; autore: Azad Lafata, sul sito Fumetto d’Autore.
Ogni critica è legittima e sugli appunti “tecnici” al libro non mi soffermo. Azad, però, accanto a questi formula altri rilievi, che potremmo dire “politici” o almeno “sostanziali più che formali”. Anche questi, s’intende, sono legittimi, ma in alcuni casi mi sembra contengano degli errori. Per questo rispondo senza coinvolgere Matteo e soffermandomi solo su questi aspetti: non voglio trascinarlo in una discussione che è più politica che non artistica. Poi, se anche lui vorrà esprimere un’opinione, ben venga: come ho già detto, per Piazza Fontana Matt è più il coautore che non il disegnatore, e soprattutto è un amico; la sua opinione, anche fosse diversa dalla mia, sarà gradita.

Per facilitare la lettura, “quoto” qua e là la recensione di Azad; la versione integrale la trovate al link che ho pubblicato qui sopra.

“… ma a quarant’anni di distanza da una delle pagine più buie della nostra storia … ci si sarebbe aspettato un approccio maggiormente avulso da inclinazioni politiche, derive “fictionali”, e una cura maggiormente storiografica. … quantomeno un diverso approccio rispetto a quello di realizzare su commissione calendariale un bignami a fumetti che piacerà anche alla Casalinga di Voghera, la quale magari alla fine della lettura avrà anche mutuato tutte le certezze dello sceneggiatore.”

Per carità, Azad ha tutto il diritto di non saperlo, ma pensare che il mio impegno su Piazza Fontana sia frutto di una “commissione calendariale” è sbagliatissimo. Conosco Licia Pinelli dal 98, Franca Dendena dal 2005, Carlo Arnoldi dal 2007. E, più in generale, il mio impegno sulle stragi italiane non è nato ieri.
Ora, non è il caso di elencare quanto e cosa ho scritto su questi argomenti, sarebbe imbarazzante e autoreferenziale. Mi basta sapere che i familiari delle vittime (non solo di Piazza Fontana) lo sanno. Aggiungo che non so se il libro sia stato letto da qualche Casalinga di Voghera, né – nel caso – se in questo target di pubblico abbia incontrato gradimento. So, e pure in questo caso tanto mi basta, che è piaciuto ai familiari delle vittime di Piazza Fontana, alla signora Pinelli e alle sue figlie. E non per qualche processo di mutuazione delle idee.

“E poi ancora: “La ricostruzione dell’ambientazione del convegno è di fantasia”; “In realtà non esistono certezze circa l’identità dei partecipanti”. E queste sono solo delle citazioni dalle note per far capire come dopo averle lette traballano tutte le certezze che la docufiction ha presentato al lettore.”

In questo caso può darsi che fra me e l’autore della recensione sia nata una semplice incomprensione, magari dovuta a poca chiarezza nelle mie note. A dire il vero le ho rilette e mi sembravano chiare; però non posso escludere che ciò che è chiaro a me possa essere frainteso da chi è meno informato; in questo caso, mea culpa e vedo di spiegarmi meglio, per Azad e per tutti.
Nel fumetto io e Matteo abbiamo rappresentato scene da 2 convegni. Su quello avvenuto fra il 3 e il 5 maggio 1965 a Roma (Ist. Pollio) esiste una minima documentazione video e fotografica. Su quello di Regensburg dell’agosto 69 (riunione del Fronte Europeo Rivoluzionario) non esistono, che io sappia, uguali fonti. Quando però scrivo “ambientazione del convegno di fantasia” alludo SOLO al contesto scenico, NON al contenuto degli interventi. I discorsi di Rauti e Giannettini (Pollio) e di Freda (Regensburg) sono stati ricostruiti rigorosamente. Ovviamente sono stati tagliati, ma mantenendo la fedeltà concettuale alle parole pronunciate dai diretti interessati.

Per quanto riguarda la riunione del 18 aprile 69 a Padova, si tratta di una riunione clandestina, per cui è pacifico che mancano SIA ricostruzioni video-fotografiche, SIA verbali o cose tipo “atti del convegno”: sarebbe paradossale e fantascientifico sperarlo (fosse esistita una simile documentazione la storia processuale di Piazza Fontana sarebbe stata diversa…). Ed è vero (l’ho scritto) che Pozzan ritrattò la propria deposizione.
Però sono altrettanto vere alcune altre considerazioni:
- Per gli attentati della primavera/estate 1969 è stata riconosciuta la responsabilità di Freda e Ventura.
- Il collegamento dei precedenti attentati con quelli successivi (fino a quelli del 12 dicembre) secondo quello che tecnicamente si dice “un unico disegno criminoso”, è stato sancito solo con l’istruttoria Salvini/Pradella. La sentenza conseguente questa istruttoria (parlo del processo terminato in Cassazione il 3 maggio 2005) riconosce questo collegamento; tanto è vero che contiene il discorso sulle responsabilità di Freda e Ventura, seppure non più condannabili, e sul progetto eversivo nel suo complesso – vedere l’articolo dell’avvocato Sinicato in appendice a Piazza Fontana.
- Che il progetto eversivo sia maturato in una serie di riunioni è cosa su cui non mi debbo neanche soffermare. Di quella del 18 aprile 69 non parlò solo Pozzan. La circostanza emerge anche negli atti del processo – attualmente in corso – per la strage di Brescia. Cito, in proposito, dalla requisitoria inziale dei PM: “Comunque c'è questa riunione, subito dopo, nell'aprile del 69, a Padova alla quale partecipano non Tramonte, ma Fachini, Freda, Ventura, Pozzan e Rauti … in questa occasione Rauti ribadirebbe concetti già espressi a Roma … che Ordine Nuovo deve alzare la temperatura tramite attentati, devono essere fatte leggi speciali che portino allo scioglimento delle camere …” (NOTA: il PM sta riportando a braccio una deposizione acquisita nella fase preliminare).
Tutto questo ci autorizza a dire con certezza che quel giorno ci fu una riunione, e che in quel momento si decise di dare “una spinta definitiva” alla campagna di attentati, arrivando al 12 dicembre? No. Ci autorizza a dare una lista degli eventuali partecipanti alla riunione? Neppure.
Ma nel fumetto la scena è stata contestualizzata correttamente. Ossia: viene inserita nel momento in cui i magistrati (che già stavano “puntando” Freda e Ventura e il gruppo che gravitava attorno ad essi) allargano la propria indagine e vengono a sapere da Pozzan di questa riunione. L’aver spiegato nelle note che Pozzan ritrattò la propria deposizione e che non esistono certezze circa l’identità dei partecipanti mi sembrava un gesto di correttezza, non una cosa per cui essere criticati.

“Con questo volume abbiamo assistito, indirettamente, anche alla dimostrazione di quanto il fumetto di impegno sociale, nonostante l’attuale successo riscontrato in libreria e l’avvicinamento al genere da parte di altre realtà editoriali (anche grandi), rischia in realtà di non avere nemmeno una reale memoria storica di se stesso. Nella bibliografia del volume non si trova nessun accenno al fumetto “Un Fascio di Bombe” di Castelli, Manara e Gomboli, datato 1975, commissionato dal Partito Socialista Italiano del Segretario De Martino, distribuito all’epoca in 600.000 copie e uno delle prime fonti a sostenere la pista neofascista della strage. Il volume, esempio di protogiornalismo a fumetti, è stato ristampato recentemente da Q Press.”

Questa parte richiede una lunga spiegazione.
Mentre lavoravo a Piazza Fontana mi parlarono del libro di Castelli, Manara e Gomboli (sinceramente non ricordo se l’accenno mi arrivò da Giannuli o da Zinni). Me ne parlarono come di una curiosità e, soprattutto, come di un volume introvabile, essendo stato realizzato per motivi elettorali e diventato poi indisponibile.
Nella bibliografia abbiamo indicato lavori ancora facilmente reperibili (ossia: ancora pubblicati o almeno facilmente consultabili in biblioteca), e a noi (qui parlo anche per Matteo) noti.
In quel momento non sapevo ancora che la Q Press avesse in mente la ristampa (che, peraltro, giudico assolutamente meritoria).
Io e Matteo abbiamo avuto “Un Fascio di Bombe” solo a Cartoomics, visitando lo stand della Q Press, direttamente da Giuseppe Peruzzo, che gentilmente ce ne ha fatto omaggio. Subito dopo Matteo ne ha parlato sul suo blog (30 marzo) e io ho pubblicato la notizia su reti-invisibili (sito che coordino), aggiornando la sezione dei libri su Piazza Fontana.
Il fumetto di Castelli, Manara e Gomboli è molto interessante. Non è completo, ma questo non certo per un difetto degli autori: nel 1975 moltissime cose non erano ancora emerse (tutta l’istruttoria Salvini parte più di dieci anni dopo).
Tutto questo per spiegare che la non-citazione nella bibliografia deriva da elementi casuali, non certo dalla volontà di tacerne l’esistenza. Appena abbiamo potuto io e Matteo ne abbiamo parlato.

Per quanto riguarda invece l’affermazione di Azad secondo cui “Un Fascio di bombe” sarebbe una “delle prime fonti a sostenere la pista neofascista della strage”: è un’affermazione palesemente sbagliata. Questa NON è una critica né agli autori di quel lavoro né a Peruzzo (che giustamente ha ristampato fedelmente quel libro), ma solo una nota storica.
Nel 1975, infatti:
- era già uscito il libro “La strage di Stato” (1970)
- erano già emerse le dichiarazioni di Lorenzon (già dal dicembre 69, seppure con fasi altalenanti – nel lavoro mio e di Fenoglio sono descritte)
- erano stati già incriminati (1972) e rinviati a giudizio (1974) Freda e Ventura.
- Era già emerso il coinvolgimento del SID (Giannettini viene incriminato nel 73)
(tutto questo per citare pochi elementi; ce ne sarebbero molti altri).

Che poi la storia processuale di Piazza Fontana sia stata a dir poco complessa e intricata è pacifico (di questo, penso possa darmene atto anche Azad, ho parlato diffusamente nel libro; tanto nel fumetto vero e proprio quanto negli apparati redazionali). Però NON è vero che la pista neofascista della strage sia nata solo nel 75 o che gli autori de “Un Fascio di bombe” siano stati fra i primi a parlarne: il loro fumetto si innestava su un lavoro che partiva da lontano; sia in campo giudiziario sia nel campo della cosiddetta (all’epoca) “controinformazione”.

Francesco “baro” Barilli

lunedì 1 marzo 2010

Michele Ginevra su "Piazza Fontana"

Leggete il commento di Michele Ginevra su "Piazza Fontana"
Io lo trovo molto, molto interessante. E stimolante: solo casini di tempo mi trattengono dall'approfondire oltre. Per ora, basti dire che ringrazio Michele per le belle parole: acute, ben argomentate, lusinghiere (anche se può sembrare paradossale dirlo) persino dove muove appunti e critiche.

Aggiornamento. Leggete anche la risposta di Matteo Fenoglio.

sabato 13 febbraio 2010

Lettera aperta al Dott. Manganelli

Caro Manganelli,
ho riflettuto a lungo, più che sull’opportunità di scriverle, sul come o in che veste farlo. Potevo scegliere quella del mediattivista che da tempo si occupa di casi di “malapolizia”, a Genova e non solo. Oppure, in modo più teatrale, quella di figlio di un poliziotto, solleticando così la curiosità sua e di qualche lettore. Alla fine è lei ad aver sciolto i miei dubbi con una recente intervista concessa al Secolo XIX. “Genova in quei giorni è stata devastata da migliaia e migliaia di persone. Persone che hanno messo paura. Che hanno seminato il terrore. Che hanno fatto guerriglia urbana”, ha affermato.
Il 16 novembre 2008, in una lettera a Repubblica, aveva usato parole più prudenti: “Credo che il Paese abbia bisogno di spiegazioni su quel che realmente accadde a Genova. L’Istituzione, attraverso di me, si muove e si muoverà a tal fine senza alcuna riserva”. Poco tempo dopo, all’inaugurazione del centro per la formazione alla tutela dell’ordine pubblico, si era lasciato andare a un’altra mezza ammissione. Parlando del G8 2001 aveva detto che “in questo campo ci sono stati errori. Ma noi abbiamo la forza di ammetterlo. E lo spirito critico per isolarli perché non si ripetano” (fonte: Il Secolo XIX). A voler essere cattivi c’è da pensare che il clima politico, rovinosamente mutato in senso autoritario nei pochi mesi che separano queste dichiarazioni, l’abbiano portata a ritenere il G8 genovese un problema risolto. Peccato che di quel problema molti ancora oggi portino i segni, nel corpo e nell’anima.
Leggo, ancora dalla sua intervista più recente, che lei comunque rispetterà, nel merito, le decisioni della Magistratura. A quasi 9 anni dai fatti suona irriverente, e questo non credo risponda alle sue intenzioni. Ho già detto, e lo ripeto ora, che non penso che la vera risposta sul luglio genovese dovesse venire dai tribunali. Soprattutto, non credo che la risposta della magistratura vada letta solo col pallottoliere che conta condanne e assoluzioni. Le ricordo, a tale scopo, che i tribunali hanno già espresso alcuni giudizi, ben diversi dalla sua tranciante assoluzione delle forze di polizia.

Sulla carica al corteo di Via Tolemaide del 20 luglio (da cui nacquero gli eventi che portarono all’uccisione di Carlo Giuliani) i giudici di primo grado hanno riconosciuto le prime reazioni dei manifestanti come “una reazione legittima nei confronti di atti arbitrari dei pubblici ufficiali”. L’ordine stesso di attaccare il corteo “non solo era illegittimo, ma palesemente ingiustificato e sproporzionato alla situazione”.

Su Bolzaneto riporto un estratto dalla condanna in primo grado all’ispettore di polizia penitenziaria al vertice della caserma: “… con più azioni esecutive dello stesso disegno criminoso … sottoponeva o comunque tollerava, consentiva, non impediva che le persone ristrette presso la caserma di Bolzaneto fossero sottoposte a misure vessatorie e a trattamenti inumani e degradanti, e arrecava così un danno ingiusto … a tutte le parti offese in stato di arresto presso la caserma … con la conseguenza di una sostanziale compromissione dei diritti umani fondamentali per le persone offese durante il periodo di permanenza …”.

Sulla Scuola Diaz la sentenza, ora sottoposta ad appello, dice che “quanto accadde all'interno della scuola Diaz Pertini fu al di fuori di ogni principio di umanità, oltre che di ogni regola ed ogni previsione normativa … Quanto avvenuto in tutti i piani dell'edificio scolastico … appare di notevole gravità sia sotto il profilo umano che legale. In uno stato di diritto non è accettabile che proprio coloro che dovrebbero essere i tutori dell'ordine e della legalità pongano in essere azioni lesive di tali entità”. E sull’atteggiamento autoassolutorio e di scarsa collaborazione da parte delle forze dell’ordine, lo stesso verdetto specifica che le violenze nella scuola non possono “trovare giustificazione se non nella consapevolezza di poter agire senza alcuna conseguenza e quindi nella certezza dell'impunità”. 

Sui manifestanti feriti dalle forze dell’ordine nel corso delle varie iniziative del luglio 2001, si è arrivati ad alcune sentenze in sede civile in cui la magistratura, non potendo individuare responsabilità personali ma riconoscendo comunque nella condotta delle forze di polizia la causa oggettiva di quanto accaduto, impone al Ministero dell’Interno il pagamento alle persone ferite di somme a titolo di risarcimento. Queste condanne appaiono il segno tangibile che molti episodi sono riconducibili “… a gravi negligenze, approssimazioni e omissioni in tutta l’operazione di ‘ordine pubblico’ compiuta” (estratto dalla sentenza di risarcimento in favore di S.C.Z., percossa il 20 luglio in Piazza Manin, piazza tematica della Rete Lilliput).

Mi sembra ci sia di che riflettere. Se lei volesse davvero dare un segnale a quanti sono rimasti scandalizzati dall’operato delle forze dell’ordine a Genova, potrebbe molto semplicemente esprimersi su questioni concrete. Questioni, voglio eliminare ogni possibile equivoco, totalmente indipendenti da quanto penalmente rilevante, e forse proprio per questo il suo parere sarebbe più utile. Potrebbe, ad esempio, dire la sua opinione su proposte da tempo sollevate. Per citarne alcune:
- la definizione di regole per consentire la riconoscibilità degli operatori delle forze dell'ordine;
- il varo di una legge che preveda il reato di tortura;
- l’istituzione di un organismo “terzo” che vigili sull’operato dei corpi di polizia;
- l’aggiornamento professionale circa i principi della nonviolenza;
- l’impegno alla esclusione dell'utilizzo nei servizi di ordine pubblico di sostanze chimiche incapacitanti e l'impegno circa una moratoria nell'utilizzo dei GAS CS.

Potrebbe infine esprimersi sull’atteggiamento delle forze dell’ordine nei vari procedimenti genovesi. Atteggiamento che negli stessi tribunali è stato sovente stigmatizzato come segnato da una difesa corporativa che, a mio avviso, nulla ha a che vedere con l’esigenza del Paese, che lei riconobbe nella lettera a Repubblica, di spiegazioni su quel che accadde a Genova nel luglio 2001.

Francesco “baro” Barilli

domenica 10 gennaio 2010

Le clementine di Rosarno e la morte della politica

Alcune osservazioni sui fatti di Rosarno. Cercherò di essere il più possibile pragmatico. Con una premessa: per essere pragmatici bisogna chiamare le cose con il loro nome, senza inutili giri di parole.

1. Seguendo la premessa, in Italia forse non c’è (ancora) razzismo; sicuramente c’è xenofobia. Fra i due termini esiste differenza, anche se spesso vengono accostati come fossero sinonimi. Ricordiamoci però che la seconda è valida anticamera per il primo.

2. Se in Italia non c’è (ancora) razzismo, sicuramente c’è (purtroppo già ben radicata) la schiavitù. Che sia una schiavitù “light” poco conta: sono solo i segni del tempo (mica vi aspetterete di vedere le navi partire per l’Africa a catturare schiavi? Non dobbiamo neanche sforzarci: partono e si caricano da sole). Non solo esiste, ma è pure tranquillamente accettata, dalle istituzioni così come dalla “società civile”.

3. Quando gli schiavi si ribellano non lo fanno come fossero membri della Camera dei Lords. Si possono avere giudizi diversi su queste modalità di ribellione; si possono o meno attribuire gradi differenti di comprensione o attenuanti; ma non si può negare che queste ribellioni costituiscono l’unico elemento in grado di portare la schiavitù all’attenzione dell’opinione pubblica, sottraendola dal sommerso di ciò che non si vuole vedere.

4. Maroni dice che la situazione di Rosarno è figlia dell’eccessiva tolleranza verso l’immigrazione clandestina. Si possono fare molti commenti su questa affermazione (i miei ve li lascio immaginare), ma tutti devono partire da una semplice constatazione: dal 2001 l’Italia è governata stabilmente (fatto salvo un anno e pochi spiccioli del secondo governo Prodi) dal centrodestra.

5. In questi giorni si è parlato molto dello stipendio giornaliero dei migranti di Rosarno, occupati nella raccolta di agrumi: fra 20 e 25 euro al giorno, probabilmente ulteriormente impoveriti da una decurtazione per il “caporalato”. Forse sarebbe il caso di ricordare che c’è un nesso fra quanto viene pagato un lavoratore per raccogliere clementine e quanto paghiamo noi un kg di clementine.

6. La vera domanda quindi è: quanto siamo disposti a pagare un kg di clementine? La domanda, tanto banale da sfiorare la cretineria, diventa meno banale se per “costo” intendiamo anche “costo sociale”… Ma, tutto sommato, va bene anche se vi interrogate sul costo in euro del kg di mandarini che avete appena acquistato.

7. La politica è morta. Ciò che chiamiamo politica è il puzzo che si leva dal suo corpo in decomposizione. E’ il mercato che determina le dinamiche sociali e la soglia di accettabilità che intendiamo attribuire agli eventi. Nel caso Rosarno, ad esempio, quanto siamo disposti a pagare un kg di clementine ci dice se riteniamo o meno la schiavitù una “normale” evoluzione della società. In base alla nostra risposta possiamo capire se dal cadavere della politica possono emergere nuove forme di “arte di governare la società”, o se dobbiamo rassegnarci a vivere secondo quanto ci indica il dio-mercato.

Francesco “baro” Barilli

venerdì 8 gennaio 2010

Recensione: “Come mi batte forte il tuo cuore”, di Benedetta Tobagi

Mi sono avvicinato al libro di Benedetta Tobagi (“Come mi batte forte il tuo cuore”, Einaudi, 19,00 euro) con sentimenti contrastanti, convinto – essenzialmente per due fattori – che l’avrei potuto commentare con difficoltà. In primo luogo, pensavo di trovare in questo lavoro pregi e difetti analoghi a quelli che riscontrai in “Spingendo la notte più in là” di Mario Calabresi. Un libro sicuramente valido, come racconto sul dolore personale e sull’elaborazione del lutto, di minor valore se assunto come ricostruzione di una parte della storia d’Italia (per di più filtrata dalla soggettività del figlio del Commissario ucciso nel maggio 1972): un lavoro dignitoso, che si confronta con i limiti di una rappresentazione parziale, valida nella misura in cui quei limiti li ammette con franchezza. In secondo luogo, proprio Benedetta, su Repubblica, aveva recensito con parole lusinghiere il mio “Piazza Fontana”. Temevo che questo senso di gratitudine, unito al piacere di aver conosciuto direttamente l’autrice proprio nell’anniversario della “madre di tutte le stragi”, potesse minare la mia obbiettività e depotenziare eventuali critiche.
La lettura del libro ha fatto piazza pulita di questi dubbi. Innanzitutto, Benedetta non è “solo” la figlia di Walter Tobagi (giornalista del Corriere della Sera ucciso il 28 maggio 1980 da uno di quei gruppi del terrorismo di sinistra che agivano in una sorta di competizione con le più “famose” Brigate Rosse), ma una scrittrice molto abile, che riesce a mixare nel suo libro partecipazione umana e lucidità di analisi. In un certo senso è fuorviante un passaggio della quarta di copertina, dove il libro viene descritto come “tenero e terribile”: una definizione efficace ma calzante solo in parte. Nel racconto, è vero, c’è tenerezza, tutta la tenerezza di una figlia che ha potuto conoscere e amare il padre solo nel rimpianto del vissuto che le è stato strappato, ma questo sentimento è solo la cornice di un quadro in cui si trovano analisi spietate e ben documentate: sulla scalata piduista al gruppo Rizzoli, sulla degenerazione della politica e di un giornalismo servile (duramente combattuto dal padre), sui “giochi di palazzo” all’interno del Corriere della Sera, diventato una sorta di territorio di conquista all’interno di una partita giocata sul controllo dell’informazione. L’unica analisi di Benedetta che non mi sento di condividere, pur rispettandola e trovandola ben argomentata, è quella sugli anni ’70. La barbara e criminale uccisione del padre sembra trasfigurare quel ciclo, agli occhi dell’autrice, in un magma di follia e violenza, cancellando, o almeno sottovalutando, quanto di positivo ci fu in un periodo che fu contrassegnato anche da lotte e conquiste sociali, da un bisogno di partecipazione collettiva che – depurato dalle derive criminali – sarebbe utile ricordare proprio oggi, di fronte al vuoto intellettuale che sembra avvolgere gli ultimi anni. Un limite (meglio: una divergenza di opinioni rispetto alle mie convinzioni) che sarebbe riduttivo e banalizzante affrontare in questa sede: più opportuno sarebbe un incontro in cui queste due visioni, invece di contrapporsi, probabilmente si arricchirebbero vicendevolmente. E comunque, se pure si trattasse di un limite, nulla toglie a un libro che, fin dal bellissimo titolo (ripreso da una lirica di Wislava Szymborska), avvolge e trascina in un abisso in cui il lettore troverà, accanto a toccanti ricordi personali, la critica alle due degenerazioni della vita pubblica italiana degli anni ’70: quella in doppiopetto di politicanti assetati di potere e quella sanguinosa dei terroristi; due degenerazioni che Walter Tobagi cercò di indagare con lo sguardo critico e curioso del vero giornalista. Un abisso da cui il lettore riemergerà senza fiato, proprio mentre Benedetta lo sorprenderà uscendone con la forza e la dignità che ottiene dall’aver definitivamente consacrato una memoria che sta a noi tutti non disperdere.

Francesco “baro” Barilli