giovedì 4 giugno 2009

“Con il nome di mio figlio. Dialoghi con Haidi Giuliani”

recensione di Francesco “baro” Barilli e Checchino Antonini

Nella vita di una persona esistono fatti che determinano un prima e un dopo, in positivo o in negativo. Non sono molti: il primo incontro con qualcuno che si rivelerà fondamentale, la nascita di un figlio, la morte di una persona cara… Ed esistono fatti che determinano un prima e un dopo in un’intera generazione.
In America esisteva una frase: “dov’eri quando hanno ucciso John Kennedy?”. Da noi non la si è mai usata, non così esplicitamente, neppure di fronte ad avvenimenti che hanno segnato l’esistenza collettiva. Pensiamo a Piazza Fontana, nel suo significato paradigmatico della strategia della tensione, nel suo rappresentare un orribile spartiacque per la storia del Paese. Sicuramente quella frase può essere usata per i fatti di Genova e l’omicidio di Carlo Giuliani, può essere usata da una generazione che si risvegliò dopo la notte della Diaz, definita di volta in volta notte cilena o macelleria messicana, fino a capirne i contorni assolutamente italiani, che mostrarono i limiti di una democrazia che stava scivolando verso il baratro, verso quell’enorme “zona gialla” che limita i diritti e che dopo Genova sembra essersi allargata all’intero Paese.
“Con il nome di mio figlio. Dialoghi con Haidi Giuliani” (curato da Marco Rovelli e da poco uscito per le edizioni Transeuropa) lo si potrebbe quindi valutare come un ennesimo lavoro sul luglio 2001, avvicinandosi al testo pensando di trovarvi un approfondimento su quei giorni, più prezioso per la voce da cui proviene. Desiderio legittimo quanto errato: “Con il nome di mio figlio” non è un saggio su Genova, e neppure è (o non è “solo”) una serie di ricordi toccanti della madre di Carlo Giuliani.
Haidi aveva già raccontato Carlo e Piazza Alimonda in almeno due occasioni. Prima nel film di Francesca Comencini “Carlo Giuliani, ragazzo”, poi nel libro “Un anno senza Carlo”, scritto con Giuliano sotto la guida di Antonella Marrone. Se il film era la denuncia dell’omicidio, ed aiutava a rimettere nella giusta luce non solo i fatti di Piazza Alimonda, ma l’intera atmosfera che sconvolse Genova, il libro parlava del successivo percorso dei genitori del ragazzo ucciso da un carabiniere il 20 luglio 2001. Se il film raccontava la ricerca della verità, il libro mostrava come quella verità andasse difesa, come dovesse essere conservata la memoria di quei fatti.
“Con il nome di mio figlio” raccoglie un dialogo a ruota libera fra Haidi e Marco, intermezzato da pagine tratte dai diari di Haidi. Può apparire – e in parte è – più spezzettato e meno organico dei due lavori già citati, mancando un univoco tema narrativo. Ma, nonostante questo limite, è proprio in questo lavoro che Haidi e Marco costruiscono il panorama completo degli 8 anni trascorsi dal luglio genovese. Nel libro c’è tutto il Carlo che ci è consentito conoscere, senza travalicare il limite di un dolore che resta personale: il figlio, il ragazzo sensibile che scriveva le sue riflessioni in forma poetica su biglietti che la madre oggi custodisce con cura (uno, particolarmente intenso, appare sulla terza di copertina del libro), la vittima della repressione, ma anche il Carlo insorto, il ribelle che s’indigna di fronte all’ingiustizia che vede perpetrarsi davanti a sé e paga la propria ribellione con la vita. Ma c’è qualcos’altro, e forse questo è il vero valore aggiunto (e anche il merito di Marco Rovelli) rispetto ai lavori precedenti: c’è tutta la Haidi che in questi anni chi scrive ha potuto conoscere. La madre, ma anche la maestra che ha amato l’insegnamento (una testimonianza di questi tempi ancora più preziosa), la senatrice spaesata ma combattiva che segue la vita di chi è costretto in carcere o nei lager per migranti (siano essi definiti CPT o CIE poco importa: lager è ancora la parola più adatta a descriverli), la testimone di una scia di vittime che attraversa Genova partendo da lontano e arrivando fino a Dax, Aldro, Aldo Bianzino e tanti altri. In una parola, c’è la Haidi “compagna”, una parola che oggi sembra provocare quasi imbarazzo, ma che – come recitava una poesia di Paul Eluard che amava ricordare Giovanni Pesce – è una di quelle parole per cui vale la pena di vivere.
“Con il nome di mio figlio” non è un libro da commentare secondo semplici categorie quali “bello” “utile” eccetera. E’ un libro che racconta un percorso dove ad essere importante non è la meta, ma il viaggio. Un viaggio che potremmo definire “camminare domandando” e che al tempo stesso è percorso umano, politico, di impegno civile. Nel libro potrete trovare le tracce di quel cammino e di quelle domande. E per questo vi sarà prezioso quanto è caro a chi scrive questo commento...

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