martedì 6 gennaio 2009

Ricordando Faber

Sono già passati 10 anni… Un male terribile lo aveva colpito verso la fine dell’estate del 1998, facendogli sospendere gli ultimi concerti programmati, e l’11 gennaio 1999 moriva Fabrizio De Andrè.
Non è retorica affermare che le sue canzoni si distinguono ancora per il loro essere vive e attuali, inquiete metafore che hanno attraversato generazioni dagli anni 60 ad oggi, anche grazie ad un mirabile esempio di ricerca linguistica e musicale che rende la sua produzione variegata e al tempo stesso sempre di altissimo livello. Nuova e coraggiosa per i tempi fu la scelta di cimentarsi in “concept album” (dischi in cui i brani ruotano attorno ad una tematica univoca, sviluppandola coerentemente). Un’opzione all’epoca molto in voga per i generi progressive e psichedelico, ma non certo tipica nel panorama dei cantautori italiani: De Andrè lo fece almeno due volte, con La Buona Novella e con Non al denaro, non all'amore nè al cielo, ma pure Storia di un impiegato può essere considerato un concept. Altra caratteristica fu la capacità di elaborare testi altrui, arrivando ad opere ugualmente originali e distinte dalle proprie matrici. Lo fece con L’antologia di Spoon River e con i Vangeli apocrifi, per i due album citati precedentemente, e pure con alcune ballate di Bob Dylan o di Brassens, fino a Smisurata Preghiera, ispirata alle liriche di Alvaro Mutis. Da citare anche la sua riscoperta del dialetto genovese, unito a sonorità complesse e ricercate, che da Creuza de mà in poi caratterizzò i suoi ultimi lavori.

Sicuramente aveva una gran bella voce, calda e profonda, ma l’attualità delle sue opere non è da cercarsi solo nel fascino dell’interpretazione. Le sue canzoni parlavano di prostitute (da Bocca di Rosa – per quanto il termine risulti improprio per l’esuberante protagonista che non sa resistere alle tentazioni dell’amore – a Princesa), di amori tormentati (Giugno 73, Verranno a chiederti del nostro amore), di eroi piccoli, quotidiani, spesso sfortunati (La guerra di Piero, Il testamento di Tito) ed erano sempre ricche di frecciate verso la borghesia ipocrita, in una perenne denuncia delle ingiustizie del mondo che gli apparivano insostenibili, e verso "la maggioranza", che detestò sempre. E’ significativo che l’ultima canzone del suo ultimo album in studio (la già citata Smisurata Preghiera, tratta dallo splendido Anime Salve) recitasse: "Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria, col suo marchio speciale di speciale disperazione, e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi, per consegnare alla morte una goccia di splendore di umanità, di verità … Ricorda Signore questi servi disobbedienti alle leggi del branco, non dimenticare il loro volto che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti".

Suicidi, carcerati, sconfitti: questi erano i suoi eroi. Uomini e donne sempre e comunque veri, non privi di difetti. Ma non si pensi che in De Andrè questo essere vicino al "diverso" fosse frutto della snobistica inclinazione dell’intellettuale. Era nato ricco, ma fin da ragazzo aveva fatto la sua scelta: la sua era la Genova dei bordelli, degli artisti, dei perdenti. E dei poeti-cantautori. La frattura che volle creare con le sue "alte" origini familiari era più di un vezzo adolescenziale: era una presa di distanza esistenziale, prima che politica. Con la sua vicinanza agli sconfitti riusciva a non esprimere semplicemente l’affinità dell’intellettuale eccentrico, che alla fine non gratifica che se stesso, ma soprattutto la restituzione della dignità a quei soggetti. E alla fine quell’umanità perdente (che a molti provoca rabbia, paura, o nella migliore delle ipotesi pietà) riusciva a muoverci verso un sentimento più nobile e difficile: l’affinità umana.

"Ci vuole troppo tempo per trovare gente con la quale vivere le mie idee e così me le vivo da solo. Con una regola da osservare, e la osservo proprio perché nessuno me l’ha imposta: l’anarchia non è un catechismo o un decalogo, tanto meno un dogma; è uno stato d’animo, una categoria dello spirito". Ci sono poche frasi che possono definire più compiutamente chi era Fabrizio De Andrè. Perché per lui la rivolta degli ultimi anni 60 e dei primi 70 prescindeva da ideologie precostituite: era la rivolta più definitiva, anche se meno palese, dell’arte, della poesia e dell’indipendenza intellettuale, che lui viveva con la convinzione che potessero demolire la montagna di ipocrisia e ingiustizie che seppellisce il mondo.
La sua distanza da rigidi schematismi ideologici non fu mai figlia della volontà di non inquadrarsi. Al contrario, in un’intervista televisiva recentemente ripresa nel dvd “Sulla mia cattiva strada”, diretto da Teresa Marchesi, rivendicava con forza il suo essersi sempre schierato e le sue radici libertarie. Anche gli anarchici, con il rigore e la correttezza intellettuale che li caratterizza, hanno sempre evitato di apporre un’etichetta su Faber, ricordandone la reciproca simpatia e vicinanza ideale, l’afflato libertario. Perchè la sua adesione all’anarchia, per quanto non propriamente organica al movimento, era al tempo stesso tutt’altro che superficiale o esterna: era un modo di vivere e di pensare, radicato nel suo essere. Recentemente i compagni anarchici lo hanno ricordato con un bel cd, Ed avevamo gli occhi troppo belli, contenente alcuni “parlati” durante i concerti e un prezioso libretto a cura della redazione della rivista “A”.

Molti e variegati sono gli omaggi che gli sono stati o gli saranno dedicati in questo periodo. Oltre a quelli già menzionati, ricordiamo la mostra al Palazzo Ducale di Genova (organizzata da Comune di Genova, Fondazione per la Cultura e Fondazione Fabrizio De André) e il volume a fumetti di Sergio Algozzino (Ballata per Fabrizio De Andrè, editore Beccogiallo). Ma forse l’omaggio più appropriato è continuare ad ascoltare, semplicemente e fino in fondo, le sue canzoni, cercando di trasformare il mondo in un posto migliore.

Francesco “Baro” Barilli

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