mercoledì 21 gennaio 2009

Recensione: “La notte che Pinelli”, di Adriano Sofri

E’ da poco uscito “La notte che Pinelli”, di Adriano Sofri, editore Sellerio. Una basilare regola (di buon senso, se non di giornalismo) consiglierebbe di evitare a questo punto una chiosa, del tipo “si tratta di un lavoro in cui viene ricostruita la morte dell’anarchico Pinelli, precipitato nella notte fra il 15 e il 16 dicembre 69 da una finestra della questura milanese…”: basta il titolo del libro a renderla ridondante. Quella banale annotazione diventa necessaria, viste le anticipazioni apparse su molti organi di stampa, dove il libro viene descritto come un lavoro sul caso Sofri/Calabresi, quando non addirittura un mea culpa dell’ex leader di Lotta Continua nei confronti del commissario ucciso il 17 maggio 1972 (omicidio per cui Sofri è stato condannato come mandante, dopo una controversa vicenda processuale oggetto di dubbi e polemiche). Diciamolo chiaramente: questo è un libro sul “caso Pinelli”, non sul “caso Calabresi”.

Nutrivo grande curiosità per questo lavoro. Anche (non solo) per l’essere stato fra i pochi a cui Licia Pinelli, vedova del ferroviere anarchico, ha concesso un’intervista (ne “La piuma e la montagna”, Manifestolibri 2008). Una curiosità che non è rimasta delusa. Il testo è molto valido come ricostruzione storico-documentale, ma pure accattivante nella forma narrativa: un monologo in cui Sofri si rivolge ad una ragazza, ignara dei fatti che si dipanano da Piazza Fontana in poi.
Da questo spunto si sviluppa il racconto. Per la bomba alla banca dell’agricoltura viene seguita la pista anarchica, privilegiata anche quando gli elementi che emergono ne dimostrano l’inconsistenza. Poi la morte di Pinelli, uno fra i tanti anarchici fermati nell’immediatezza. Entrato in Questura la sera del 12 dicembre ne uscirà morto pochi giorni dopo, dopo un volo dal quarto piano di quegli uffici, durante una pausa dell’ennesimo interrogatorio; resterà indicato come uno degli autori della strage, fino a quando sarà riconosciuto estraneo ai fatti. Il libro di Sofri affronta pure la sentenza di Gerardo D’Ambrosio, che nel 75 escluderà le contrastanti ipotesi di suicidio e omicidio, per scegliere una terza versione: un malore avrebbe sorpreso il ferroviere anarchico, stremato dopo ore di interrogatorio, mentre prendeva una boccata d’aria alla finestra. Sofri smonta l’esito della sentenza: riconosce che al momento di quel volo Calabresi era assente dalla stanza, ma esclude suicidio o malore, pur riconoscendosi impossibilitato a formulare un’ipotesi definitiva. In seguito, affronta la famosa campagna di stampa contro Calabresi, indicato da molti come colpevole della morte di Pinelli, la drammatica fine del Commissario e – come già accennato – le proprie responsabilità morali.
Riguardo l’atteggiamento dei funzionari della Questura durante il fermo di Pinelli e dopo la sua morte, Sofri supporta ogni affermazione con documenti dell’epoca, sottolineando incongruenze e contraddizioni nelle versioni date sull’accaduto. Sofri si mantiene critico verso Calabresi, ma inquadrandolo come componente di un contesto in cui le accuse maggiori vanno indirizzate verso livelli superiori: il Questore di Milano, Marcello Guida, e ancor più il Commissario capo, Antonino Allegra. Quest’ultimo, va ricordato, fu l’unico per cui venne accertata una responsabilità penale, seppure senza conseguenze: D’Ambrosio lo riconobbe colpevole per il fermo illegale dell’anarchico, ma il reato si era estinto per intervenuta amnistia.

Vorrei tornare ora alle anticipazioni apparse sui media prima dell’uscita del libro. Lo confesso, in base a quelle nutrivo più d’un dubbio su “La notte che Pinelli”. Mi è sembrato corretto attendere la lettura per commentare a mia volta: atteggiamento a quanto pare giudicato balzano per chi ha pensato di poterlo recensire o commentare “a prescindere”. Ho già detto che la lettura mi ha confortato, nel merito del volume; si sarà già capito che mi ha sconfortato riguardo la professionalità – se non l’onestà morale – di chi ne ha parlato prima dell’uscita.
Sono quindi necessarie alcune precisazioni per chi, interessato al libro, dopo averne seguito le premature recensioni si è probabilmente formato impressioni distorte. Ad esempio, va chiarito che il riconoscimento di una responsabilità morale che Sofri assume su se stesso per l’uccisione di Calabresi non è la parte caratterizzante del lavoro, ma soprattutto non è la grande novità venduta da molti giornalisti, essendo solo la conferma di precedenti e analoghe dichiarazioni dell’autore (seppure, forse, mai espresse con l’intensità usata in questa occasione).
Ma il tema della responsabilità morale sollevato da Sofri rende possibile una riflessione proprio sul caso Pinelli. Se pare condivisibile, nel ricostruire la dinamica del fatto, escludere l’ipotesi del suicidio e non credibile la teoria del malore avallata nella sentenza D’Ambrosio, e se pare dimostrata l’assenza del commissario dalla stanza dell’interrogatorio al momento della caduta, resta mai affrontato il comportamento tenuto dalla Questura milanese.
Anni fa Montanelli, ed altri lo seguirono sulla stessa linea, invitò Sofri a fare ammenda di ciò che a suo tempo scrisse di Calabresi, indipendentemente da sue responsabilità materiali nell’omicidio del Commissario, perlomeno come atto di correttezza nei confronti della vedova. In quel frangente pensai che esisteva un’altra donna in Italia, alla quale non sono state fatte scuse e per la quale nessuno s’è mai scomodato affinchè le arrivasse un’autocritica da parte di chicchessia. La responsabilità morale è un fardello che in molti hanno chiesto a Sofri di assumere su di sé. Poco conta, per quei commentatori, che Sofri l’abbia già fatto, non solo a partire da questo libro; quel che sembra importante è che quel fardello venga ricordato, andando a cancellarne altri di cui nessuno ha mai chiesto conto.

La questione morale appare dunque, a ormai tanti anni dai fatti, rilevante quanto se non più di quella materiale o penale. Tentare oggi un’inchiesta alternativa sulla morte di Pinelli è molto difficile; il tempo passato si aggiunge ad elementi già dubbi o vaghi, rendendo tutto ancora più scivoloso. Ma il caso Pinelli non lo si può cristallizzare nell’istante della precipitazione. Comincia con un fermo di polizia illegale e termina con una campagna diffamatoria verso la vittima, di cui si volle sostenere il suicidio e il coinvolgimento nella strage di piazza Fontana (suicidio e coinvolgimento entrambi esclusi ad ogni livello, anche processuale).
Non vorrei essere frainteso, dunque preciso pure il superfluo: la campagna a suo tempo condotta contro Luigi Calabresi fu assolutamente sbagliata, nei toni e nei contenuti. Finì col cementare l’opinione pubblica in una contrapposizione dove sola cosa su cui interrogarsi era accertare se il commissario fosse o meno l’unico responsabile della morte di Pinelli, o se fosse stato o meno presente nell’istante della precipitazione. Si personalizzò una campagna di stampa che trascese nei modi e nei tragici effetti, perdendo di vista la  complessità della situazione e i reali obbiettivi di verità cui si doveva aspirare.
Oggi assistiamo ad un risvolto negativo opposto: si è uniformata la memoria di quegli anni, secondo una logica che preferisce infierire su chi è già stato sconfitto dalla storia. Vittime delle forze dell'ordine, dei neofascisti e della strategia della tensione sono state rimosse, mentre lo Stato, per esorcizzare le proprie responsabilità, si è semplicemente autoassolto.

Su tutti quelli che collaborarono al fermo di Pinelli grava una responsabilità, morale se non penale. Laddove non si può parlare di colpe dirette si può parlare di acquiescenza di tutti quelli che parteciparono a diverso titolo al fermo e alle menzogne successive, nessuno escluso. Tutto questo perlomeno nella costruzione della falsa versione dell’anarchico “suicida in quanto gravemente indiziato”, e senza voler ricondurre il fatto ad una sorta di guerra “Pinelli contro Calabresi”, semplificazione che ha già causato abbastanza lutti e dolori. Per questo sarebbe necessario che le responsabilità morali venissero esplorate (oggi, quando in teoria lo si potrebbe fare con più serenità) a tutto campo, senza accontentarsi della superficiale soddisfazione di chi del libro di Sofri ha voluto leggere solo poche righe. Per questo sarebbe necessario che altri pensassero a sgravare la propria coscienza. Magari cominciando da chi era presente, o almeno sa cosa sia successo, al quarto piano della Questura di Milano, la notte fra il 15 e il 16 dicembre 1969. E, più in generale, per l’orrore di Piazza Fontana dovrebbero chiedere scusa – come scrisse Norberto Bobbio a Sofri in una lettera del 98, riportata nel libro – “non coloro che lo denunciarono e non furono ascoltati, ma i promotori, gli autori materiali rimasti sinora impuniti, e tutti coloro che hanno impedito sino ad oggi di conoscere la verità”.

Francesco “baro” Barilli

martedì 6 gennaio 2009

Ricordando Faber

Sono già passati 10 anni… Un male terribile lo aveva colpito verso la fine dell’estate del 1998, facendogli sospendere gli ultimi concerti programmati, e l’11 gennaio 1999 moriva Fabrizio De Andrè.
Non è retorica affermare che le sue canzoni si distinguono ancora per il loro essere vive e attuali, inquiete metafore che hanno attraversato generazioni dagli anni 60 ad oggi, anche grazie ad un mirabile esempio di ricerca linguistica e musicale che rende la sua produzione variegata e al tempo stesso sempre di altissimo livello. Nuova e coraggiosa per i tempi fu la scelta di cimentarsi in “concept album” (dischi in cui i brani ruotano attorno ad una tematica univoca, sviluppandola coerentemente). Un’opzione all’epoca molto in voga per i generi progressive e psichedelico, ma non certo tipica nel panorama dei cantautori italiani: De Andrè lo fece almeno due volte, con La Buona Novella e con Non al denaro, non all'amore nè al cielo, ma pure Storia di un impiegato può essere considerato un concept. Altra caratteristica fu la capacità di elaborare testi altrui, arrivando ad opere ugualmente originali e distinte dalle proprie matrici. Lo fece con L’antologia di Spoon River e con i Vangeli apocrifi, per i due album citati precedentemente, e pure con alcune ballate di Bob Dylan o di Brassens, fino a Smisurata Preghiera, ispirata alle liriche di Alvaro Mutis. Da citare anche la sua riscoperta del dialetto genovese, unito a sonorità complesse e ricercate, che da Creuza de mà in poi caratterizzò i suoi ultimi lavori.

Sicuramente aveva una gran bella voce, calda e profonda, ma l’attualità delle sue opere non è da cercarsi solo nel fascino dell’interpretazione. Le sue canzoni parlavano di prostitute (da Bocca di Rosa – per quanto il termine risulti improprio per l’esuberante protagonista che non sa resistere alle tentazioni dell’amore – a Princesa), di amori tormentati (Giugno 73, Verranno a chiederti del nostro amore), di eroi piccoli, quotidiani, spesso sfortunati (La guerra di Piero, Il testamento di Tito) ed erano sempre ricche di frecciate verso la borghesia ipocrita, in una perenne denuncia delle ingiustizie del mondo che gli apparivano insostenibili, e verso "la maggioranza", che detestò sempre. E’ significativo che l’ultima canzone del suo ultimo album in studio (la già citata Smisurata Preghiera, tratta dallo splendido Anime Salve) recitasse: "Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria, col suo marchio speciale di speciale disperazione, e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi, per consegnare alla morte una goccia di splendore di umanità, di verità … Ricorda Signore questi servi disobbedienti alle leggi del branco, non dimenticare il loro volto che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti".

Suicidi, carcerati, sconfitti: questi erano i suoi eroi. Uomini e donne sempre e comunque veri, non privi di difetti. Ma non si pensi che in De Andrè questo essere vicino al "diverso" fosse frutto della snobistica inclinazione dell’intellettuale. Era nato ricco, ma fin da ragazzo aveva fatto la sua scelta: la sua era la Genova dei bordelli, degli artisti, dei perdenti. E dei poeti-cantautori. La frattura che volle creare con le sue "alte" origini familiari era più di un vezzo adolescenziale: era una presa di distanza esistenziale, prima che politica. Con la sua vicinanza agli sconfitti riusciva a non esprimere semplicemente l’affinità dell’intellettuale eccentrico, che alla fine non gratifica che se stesso, ma soprattutto la restituzione della dignità a quei soggetti. E alla fine quell’umanità perdente (che a molti provoca rabbia, paura, o nella migliore delle ipotesi pietà) riusciva a muoverci verso un sentimento più nobile e difficile: l’affinità umana.

"Ci vuole troppo tempo per trovare gente con la quale vivere le mie idee e così me le vivo da solo. Con una regola da osservare, e la osservo proprio perché nessuno me l’ha imposta: l’anarchia non è un catechismo o un decalogo, tanto meno un dogma; è uno stato d’animo, una categoria dello spirito". Ci sono poche frasi che possono definire più compiutamente chi era Fabrizio De Andrè. Perché per lui la rivolta degli ultimi anni 60 e dei primi 70 prescindeva da ideologie precostituite: era la rivolta più definitiva, anche se meno palese, dell’arte, della poesia e dell’indipendenza intellettuale, che lui viveva con la convinzione che potessero demolire la montagna di ipocrisia e ingiustizie che seppellisce il mondo.
La sua distanza da rigidi schematismi ideologici non fu mai figlia della volontà di non inquadrarsi. Al contrario, in un’intervista televisiva recentemente ripresa nel dvd “Sulla mia cattiva strada”, diretto da Teresa Marchesi, rivendicava con forza il suo essersi sempre schierato e le sue radici libertarie. Anche gli anarchici, con il rigore e la correttezza intellettuale che li caratterizza, hanno sempre evitato di apporre un’etichetta su Faber, ricordandone la reciproca simpatia e vicinanza ideale, l’afflato libertario. Perchè la sua adesione all’anarchia, per quanto non propriamente organica al movimento, era al tempo stesso tutt’altro che superficiale o esterna: era un modo di vivere e di pensare, radicato nel suo essere. Recentemente i compagni anarchici lo hanno ricordato con un bel cd, Ed avevamo gli occhi troppo belli, contenente alcuni “parlati” durante i concerti e un prezioso libretto a cura della redazione della rivista “A”.

Molti e variegati sono gli omaggi che gli sono stati o gli saranno dedicati in questo periodo. Oltre a quelli già menzionati, ricordiamo la mostra al Palazzo Ducale di Genova (organizzata da Comune di Genova, Fondazione per la Cultura e Fondazione Fabrizio De André) e il volume a fumetti di Sergio Algozzino (Ballata per Fabrizio De Andrè, editore Beccogiallo). Ma forse l’omaggio più appropriato è continuare ad ascoltare, semplicemente e fino in fondo, le sue canzoni, cercando di trasformare il mondo in un posto migliore.

Francesco “Baro” Barilli