mercoledì 18 giugno 2008

Intervista con Giuseppe Bianzino, padre di Aldo Bianzino

Aldo Bianzino, 44 anni, viene rinchiuso la sera del 12 ottobre scorso nel carcere di Capanne a Perugia, per il possesso di alcune piantine di canapa indiana. Viene trovato senza vita la mattina del 14 ottobre.
Aldo l’ho potuto vedere solo in fotografia; suo padre Giuseppe l’ho incontrato la prima volta a Lodi, un mese fa. L’ho conosciuto tramite Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi, anche lui deceduto in carcere l’11 luglio 2003 (sulla sua morte si sono recentemente riaccese speranze di verità, dopo la riapertura del caso). Quella sera Giuseppe ha abbracciato anche Haidi Giuliani, e poi Danila Tinelli e Maria Iannucci, rispettivamente madre di Fausto e sorella di Iaio. Incroci di destini fatti di dolorose perdite e di mancanza di giustizia, un affetto e una solidarietà che sorgono spontanei.
Dal confronto con le foto del figlio, risulta chiara la somiglianza fra Aldo e Giuseppe. Alti, magri, grandi occhiali. Anche caratterialmente Giuseppe ricorda quel che si racconta dell’indole del figlio. Mitissimo, ma non per questo meno risoluto nel combattere le ingiustizie. Nei gesti e nel sorriso i segni di una cordialità e di una serenità che la tragedia ha incrinato ma non cancellato. “Mio figlio era molto aperto, disposto a parlare con tutti”, mi racconta. “Già da bambino, bastava che qualcuno lo chiamasse e lui gli sorrideva e lo seguiva. In questo era simile a me, o almeno a come ero una volta. Oggi sono cambiato. Una volta sorridevo sempre e qualcuno mi chiedeva ‘ma cos’hai da ridere?’. Io semplicemente sorridevo perché mi sembrava che la vita mi sorridesse. Oggi sorrido poco, quella domanda non me la rivolgono più…”.
Lo incontro nuovamente nella sua casa di Vercelli. Lui ha voglia di parlare e io di dargli voce.

Tu quando vieni a sapere della morte di Aldo?

Domenica pomeriggio, quando era già morto da alcune ore. Mi ha telefonato Gioia, la sua prima moglie, madre dei due figli maggiori (Aruna ed Elia). All’inizio ha chiesto se Aruna era lì da me, poi ha tergiversato un po’, non sapeva come dirmelo. Prima ha detto che mio figlio aveva avuto un infarto, solo dopo qualche minuto ha aggiunto che era morto, ma non mi ha specificato i dettagli, non ha parlato del carcere, non se la sentiva. In quel momento ha accennato solo a mancanze nei soccorsi. Mia moglie era in giardino, gliel’ho dovuto riferire io. Non sai cosa significa dire una cosa del genere a una madre… Ho cominciato a sapere tutta la storia pochi giorni dopo. Poi, dopo altro tempo ancora, è stata sempre Gioia a dirmi “adesso devo raccontarti tutto”. Mi ha parlato dell’autopsia, dei 4 ematomi cerebrali, dei danni al fegato e alla milza. In quel momento si diceva pure di due costole rotte, circostanza che però sembra essere stata smentita dall’autopsia successiva. Nel frattempo erano cominciati i contatti con Roberta, la sua compagna (arrestata assieme a lui e scarcerata subito dopo la morte di Aldo), e la nostra battaglia comune per capire cosa fosse successo in quella cella.

Ti sei fatto qualche idea su quanto accaduto?

Ho due ipotesi. Forse i suoi carcerieri pensavano davvero di trovarsi di fronte a uno spacciatore. Non avendo trovato denaro in casa di Aldo e Roberta (la perquisizione aveva raccolto solo trenta euro), hanno pensato avessero nascosto “il malloppo” da qualche parte. Per questo può darsi l’abbiano malmenato, per farlo confessare. L’altra ipotesi si basa sull’idiosincrasia di mio figlio verso strutture chiuse come il carcere. Aldo era molto tranquillo e aperto di carattere, ma incapace di comportamenti servili e non incline al rispetto delle gerarchie. In un ambiente chiuso e codificato come dev’essere il carcere si crea quella subordinazione che pretende ritualità, rispetto ossequioso verso gli ordini: una realtà impossibile per lui. Magari questo l’ha portato a qualche reazione e di conseguenza può essere scattata la voglia di dargli “una lezione”.

Cosa puoi dirmi sullo stato delle indagini?

Il magistrato che aveva in mano l’inchiesta era lo stesso che l’ha fatto arrestare. Un arresto che considero assurdo non solo per l’assoluta mancanza di pericolosità di persone come Aldo e Roberta, ma anche perché avvenuto di venerdì pomeriggio, costringendo quindi due persone a restare in carcere inutilmente per almeno tre giorni. Tutto questo senza poter vedere un giudice e chiarire la loro posizione, e per di più lasciando Rudra e la nonna (ossia il figlio quattordicenne di Aldo e Roberta, e una novantenne in precarie condizioni di salute) completamente isolati e abbandonati a se stessi. Sulla sua morte è stata chiesta l’archiviazione, a cui si è opposta tutta la famiglia, coi rispettivi avvocati. Non so cosa aspettarmi delle indagini, seppure da ignorante in materia legale ci vedo troppi buchi. Io pensavo che in un carcere, almeno nei corridoi e nei luoghi di passaggio, ci fosse una vigilanza costante, anche tramite telecamere, eppure ancora oggi non si sa chi sia entrato e uscito da quella cella. Prima abbiamo accennato a incongruenze nelle autopsie e voglio farti un esempio specifico. Le lesioni al fegato le hanno giustificate con una manovra di rianimazione maldestra, fatta con imperizia e troppa violenza. Ammesso che si possa credere a questa versione, è possibile che non si sappia chi ha operato quel tentativo di soccorso?

Alla fine si sta facendo strada la teoria di una morte per cause naturali, per rottura aneuristica.  Inoltre, si è parlato molto dell’assenza di lesioni esterne…

L’aneurisma è un elemento di debolezza del sistema circolatorio, che può starsene tranquillo per anni e poi cedere. Cosa posso dirti?… Forse per deformazione professionale da vecchio chimico ragiono in termini pratici, di impianti. Alla Thyssen Krupp l’impianto faceva schifo, ma è successo qualcosa che l’ha fatto scoppiare. Ecco, anche volendo credere all’aneurisma, io sono alla ricerca di quel “qualcosa”. Nulla capita per caso. Sulla mancanza di segni esteriori, tu pensi ci siano lesioni esterne nei prigionieri di Guantanamo? O sui corpi dei poveracci passati nelle mani di Videla o Pinochet per poi essere scaricati in mare?

La storia di tuo figlio mi ricorda un panorama in cui la nebbia prima si dirada e poi si riaddensa. Ci parla di una zona grigia nello stato dei diritti, favorita dall'intreccio tra retorica securitaria e guerra al diverso.

In questi tempi si fa un gran parlare di sicurezza, peraltro cercando di distorcere la scala di importanza dei fatti. Quando si parla di sicurezza e legalità non si parla dei morti sul lavoro, che sembrano confinati in un altro pianeta, e neppure dei grandi truffatori, che non sembrano destare quello che oggi viene chiamato “allarme sociale”. Intendiamoci, capisco che il ladro che ruba la pensione alla vecchietta che l’ha appena ritirata sia un problema reale e da affrontare, ma non capisco quale allarme possa essere determinato da uno che si fa uno spinello. Chi vive alle nostre spalle rubando miliardi o guadagnandoli in modo poco pulito, al contrario, non è considerato pericoloso. Tu mi parli di nebbia e di zona d’ombra ed è corretto; io, al di là del dolore personale, la storia di mio figlio l’ho vissuta come un’enorme contraddizione. Una contraddizione di quello che una volta avremmo chiamato “il sistema”.

La vicenda di Aldo ti ha creato un’idea in generale del mondo carcerario? E come è cambiata, se è cambiata, la tua visione della giustizia?

Cosa penso del carcere? Che è una cosa diversa se ti chiami Geronzi o Bianzino. Può sembrare banale ma è così, è quel che sento. Quando oggi leggo di tragedie successe nei CPT, di persone malmenate o morte “in circostanze misteriose”, come si dice, provo la stessa sensazione: carceri e CPT sono luoghi dove la persona perde i propri diritti. Per questo è facile che lì dentro certe cose succedano, ed è difficile poi scoprire la verità. E parlo di due luoghi che a torto si pensa debbano tutelare solo chi sta fuori da chi vi è imprigionato. E’ falsissimo: carcere e CPT dovrebbero tutelare pure chi sta dentro. Questo perché anche chi viene rinchiuso in una di quelle strutture è sotto la tutela dello Stato. Tutti, ma a maggior ragione quelli che, come Aldo, sono reclusi senza aver subito una condanna e quindi vanno considerati innocenti fino all’emissione della sentenza. Del resto ne abbiamo parlato prima: quando si parla di sicurezza si parla di una sicurezza monca e ambigua. Le morti in carcere sono tantissime. Non parliamo di quelle nei CPT, visto che quei poveracci ormai sembrano appartenere a una categoria subumana. Non parliamo di Carlo Giuliani: per lui hanno ripristinato la pena di morte, direttamente in piazza. Una volta avremmo parlato di “giustizia di classe”: forse dovremmo avere il coraggio di dirlo anche oggi…

mercoledì 4 giugno 2008

Ramon e gli altri

Pochi giorni fa ho pubblicato un commento sulla signora Franzoni e sul caso Cogne. Un commento un po’ “sui generis”, nel senso che ho parlato non tanto della vicenda in sé, quanto della situazione carceraria in Italia. In coda a quell’intervento citavo un estratto dall’intervista al professor Franco Della Casa.
Quell’intervista faceva parte di un progetto più completo, realizzato assieme a Sonia Benedetti, Carlo Del Grande, Francesca Frizzi Manigilio e David Santi, dal titolo “Ramon e gli altri”. Il lavoro è relativamente datato (lo cominciammo nel dicembre 2003 e fu terminato – se non erro – nella primavera 2005) ma tuttora attuale. E’ stato originariamente pubblicato su ecomancina a questo link.

(Scaricabile)