venerdì 29 febbraio 2008

Aborto, sessualità e rapporto con il proprio e l'altrui corpo: scambio di idee con Lea Melandri

NOTA: L’articolo che segue è stato pubblicato su Liberazione del 29 febbraio 2008. Si tratta di una lettera a Lea Melandri, ed è un commento ad un precedente intervento della stessa Melandri datato 20 febbraio.
La mia lettera riprende, in piccola parte, un articolo che avevo pubblicato sul blog di splinder il giorno 11 febbraio (“Una piccola storia personale sull’aborto”), ma in generale è totalmente nuovo.
In coda al mio intervento trovate la risposta di Lea, sempre pubblicata su Liberazione del 29 febbraio 2008.

Cara Melandri,
prima di scrivere sulla “questione aborto” sono stato a lungo incerto. Un po’ perché sull’argomento noi uomini dovremmo intervenire in punta di piedi, e non con grazia da elefanti come molti fanno. E’ innegabile che in questo entrino in gioco le dinamiche di una società in cui il rapporto di potere fra i sessi è, se non la più importante, certamente la più radicata delle ingiustizie, universalmente diffusa e per questo difficile da riconoscere. Un po’ mi intimorivano i toni manichei che ha assunto il dibattito: di fronte a quanto non conosco tendo a ritrarmi; non mi spaventano le battaglie, se non quando i contendenti non sembrano avere chiara la posta.
Pur condividendo il suo intervento del 20 febbraio, credo che al dibattito generale sfugga una cosa. Il punto non è che si parli o meno dell’aborto, o “chi” o “come” ne parli. Il punto è riconoscere che non se ne è mai “davvero” parlato; così come si sono sempre evitate le questioni del rapporto tra i sessi, le gravidanze indesiderate, gli stupri, quasi fossero parte integrante delle disgrazie della vita. Guardando all’attualità, alla campagna elettorale che dovrebbe affrontare le tematiche prioritarie, vediamo che i temi sono gli stessi: divergono le angolazioni ideologiche, ma si tratta sempre di economia, sicurezza, tasse, lavoro. L’aborto è entrato in agenda come un argomento sfuggente e autonomo; sessualità e autodeterminazione, nemmeno di striscio. Causa di questa rimozione è la matrice maschile del potere dominante, certo, ma riconoscere la causa non significa essere vicini alla soluzione.
Siamo nati tutti da un ventre materno, ma preferiamo non ricordarlo o affidare “il fatto” all’ineluttabilità naturale. Una rimozione cui seguono a ruota le altre. Persino confinare l’aborto alla sola dimensione etica personale appare funzionale a questa rimozione, perché nega all’argomento ogni valenza nel dibattito collettivo.
Con difficoltà racconto una mia esperienza personale, dolorosa anche se con epilogo felice. E’ la storia di “una” scelta”, non è “la” scelta, non ha pretese di essere paradigmatica o di insegnare alcunché.
Nel 2000, dopo il primo figlio, Maria restò incinta per la seconda volta. Una gravidanza voluta, ci apprestavamo a vivere con gioia quell’esperienza. Mia moglie aveva contratto una malattia innocua, ma potenzialmente grave per il piccolo. Avemmo conferma dei nostri timori a Pavia; il medico ci illuminò sui nostri dubbi: il bimbo rischiava cecità o malformazioni neppure rilevabili con le ecografie. La scelta era nostra, lui non poteva farci nulla.
Richiedemmo un altro consulto. Una ginecologa (donna: lo sottolineo non per sessismo, ma perché mi sarei aspettato una sensibilità diversa) confermò freddamente l’impossibilità del poterci dare certezze. Ci congedò in modo scostante e con poche parole: “non vedo che problemi vi fate: signora, lei non potrà sapere che destino ha il feto; nel dubbio, abortisca intanto che è in tempo, poi farà un altro figlio”.
Quella risposta non era solo crudele, era una spia linguistica. Non si trattava solo del cinismo professionale dei medici, ma di una visione arida della vita, reazione uguale e contraria a secoli di predominio maschile.
Mia figlia Stefania nacque il 2 gennaio 2001, sana e bellissima. Ma quella storia mi ha portato a pensare che il primo pericolo, quando si parla di aborto, non è tanto lo schierarsi pro o contro, ma è la banalità, figlia di quella rimozione cui accennavo che non si potrà risolvere se non affrontando il tema della sessualità, e in generale del rapporto dell’essere umano col proprio e con l’altrui corpo, senza che alla misoginia culturale dell’uomo si contrappongano reazioni irriflesse inadeguate a sconfiggerla.
Con stima,
Francesco “baro” Barilli


Caro Francesco, grazie della sua lettera, che ho letto con piacere, non solo perché ne condivido il contenuto, ma perché rappresenta un modo inedito, da parte maschile, di affrontare la "questione aborto". Neanche a me piace la semplificazione manichea, ma spesso vi si è spinti proprio dal fatto che, come lei dice, di aborto, di sessualità, di autodeterminazione, non si è mai "davvero" parlato, per cui alla rimozione o alla persistente misoginia degli uomini fa riscontro la reazione "banalizzante" delle donne che hanno a che fare quotidianamente e professionalmente con l'aborto. Non sono bastati purtroppo quarant'anni di femminismo per far entrare tra i temi prioritari della politica il rapporto tra i sessi, la sessualità, le problematiche del corpo. E ancora oggi, nel momento in cui sono la Chiesa e la destra integralista a immetterveli con una violenza senza pari, la sinistra esita e tiene l'aborto - lei giustamente osserva - come "argomento sfuggente e autonomo". Deve essere davvero difficile per un uomo dire di essere nato da un corpo femminile, soprattutto se da quel corpo, fermato nella sua funzione biologica temporanea, si finisce per dipendere tutta la vita.
Lea Melandri

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