giovedì 15 novembre 2007

Caso Sandri: la morte di Gabriele e il silenzio dei poliziotti democratici

Sui fatti di domenica si potrebbero scrivere molte riflessioni: sull’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine e sulla trasparenza di queste; sulla deriva che ha fatto assumere al calcio un’importanza spropositata, con conseguenti implicazioni sociali e di ordine pubblico. Ma qualche riflessione interessante può nascere anche solo ripercorrendo la sequenza temporale delle notizie.
I primi lanci di agenzia avvengono a mezzogiorno. Sono passate più di due ore dalla morte di Gabriele Sandri, ma queste notizie parlano di “scontri tra tifosi con un morto”, non c’è menzione del poliziotto che ha sparato. Nei lanci successivi la rissa tra tifosi si sgonfia e di pari passo si fa strada la notizia, sempre ipotetica, che a sparare potrebbe essere stato un poliziotto: sono circa le 12,30.
Fra le 12,40 e le 13,00 cominciano le prime ammissioni: prima il questore poi il dirigente della squadra mobile di Arezzo parlano di “situazione delicata”, e rimandano dichiarazioni più esplicite. La prima affermazione perentoria circa l’identità dello sparatore arriva alle 13,31, solo che a farla non sono fonti delle forze dell’ordine ma tifosi laziali. Da questo momento in avanti, di fronte all’evidenza, arrivano anche le ammissioni ufficiali, sempre timide e reticenti.
Alle 18,00 il questore, in conferenza stampa, parla di due colpi in aria, pur riconoscendo il nesso fra questi e la morte di Sandri. Alla conferenza stampa è presente il portavoce della Polizia, Roberto Sgalla, protagonista di un’altrettanto surreale conferenza stampa sei anni fa. Fu lui, dopo la notte della Diaz, ad illustrare ai giornalisti le “prove” raccolte alla scuola e a parlare di ferite pregresse per i ragazzi pestati. Domenica scorsa Sgalla ha proposto un repertorio leggermente diverso: si limita a troncare l’incontro con la stampa, e nega ai giornalisti di fare domande, costringendoli ad accontentarsi della laconica (ed errata) ricostruzione del questore. La “notte cilena” di sei anni fa ha forse insegnato a Sgalla l’arte di limitare le dichiarazioni, non certo la dote della trasparenza.
Perché il punto in fondo è tutto qui. Coloro che in queste ore tuonano contro i “detrattori delle forze dell’ordine” fingono di non capire che, per recuperare il rapporto di fiducia fra cittadini ed operatori di polizia, si deve prioritariamente invertire una tendenza: i fatti di sangue che vedono come protagonisti degli agenti non devono essere coperti da una cortina fumogena. La trasparenza non deve solo essere promessa, la si deve assicurare concretamente e nell’immediato: prometterla vagamente, come ha fatto il capo della polizia Antonio Manganelli a 12 ore di distanza dalla morte di Sandri, non è solo insufficiente, ma pure una rinnovata reticenza.
Molti hanno accostato la morte del giovane tifoso laziale a quella di Carlo Giuliani o di Federico Aldrovandi, io voglio andare più lontano, a più di trent’anni fa. Quando Roberto Franceschi viene raggiunto da un proiettile sparato da un agente la sera del 23 gennaio 1973, dopo alcuni disordini a seguito di un’assemblea del movimento studentesco a Milano. Ricoverato in condizioni disperate, si spegne pochi giorni dopo. Le sentenze non appureranno l’identità del colpevole, ma indicheranno con certezza la responsabilità della polizia.
Lydia, madre di Roberto, ricorda ancora d’aver apprezzato l’atteggiamento di alcuni agenti che qualche tempo dopo le dimostrarono sincera indignazione per quanto successo, atteggiamento ben distante dall’acritica difesa corporativa cui assistiamo oggi. Alcuni di questi, il 23 gennaio 1983 deposero sul monumento una corona con la scritta: "A Roberto Franceschi i poliziotti democratici”.
La presa di coscienza di quei poliziotti è quello che davvero manca oggi, tanti anni dopo, la loro voce è l’assenza più pesante di queste ore. Un silenzio che ci parla di un passo indietro di decenni compiuto dalle nostre forze dell’ordine in materia di rispetto dei diritti individuali e di consapevolezza del proprio ruolo. Un passo indietro su un percorso sempre più scivoloso, che nessuno sembra saper arrestare.

mercoledì 7 novembre 2007

Una piccola perdita

Il Principe aveva lavorato a lungo per preparare la grande festa di quei giorni. A palazzo erano attesi nobili, condottieri, dame di grande fascino, e tutto doveva essere perfetto. Li aveva accolti col suo eloquio colto e tranquillo, un sorriso rassicurante sulle labbra, ma chi lo conosceva bene poteva vedere nei suoi gesti qualche cenno di stanchezza. Alcuni sostengono che il Principe fosse sotto pressione anche per altri motivi. L’Imperatore, così pare, lo aveva prescelto per compiti più alti, forse addirittura per farne il suo successore. Altri sostengono fosse stato lo stesso Principe a creare le condizioni affinchè quella nomina apparisse poco più di un passaggio obbligato. Noi storici, a tanti anni di distanza, non sappiamo sciogliere questo dubbio, e possiamo solo registrare le diverse ipotesi.
Anche sulla piccola tragedia di quel giorno non ci è possibile esprimere certezze. Poco distante dal palazzo e dalla festa, dove gli invitati si intrattenevano fra canti, balli e rappresentazioni teatrali, un bambino di due mesi era morto di freddo. Secondo la sua biografia consolidata, che ne ha costruito un profilo di alte doti morali e intellettuali, Lui era sempre attento ai bisogni dei suoi sudditi, e se l’avesse saputo non sarebbe rimasto insensibile di fronte alla notizia. Avrebbe certamente fermato la festa e pronunciato qualche parola di sincera commozione, per poi fare visita alla madre di quel bambino recandole conforto e aiuto.
Alcuni dicono che il Principe fosse stato informato, ma in ritardo. Altri, che fu il Gran Ciambellano a disporre che quella notizia non lo turbasse. Per quanto strano possa sembrare a chi si interessa della sua storia, di sicuro c’è solo che il Principe non disse o fece nulla, e il fatto passò sotto silenzio per alcuni giorni. Molti storici hanno letteralmente rimosso questa macchia dalla sua biografia, non si sa se per sudditanza psicologica o per sciatteria. Fermo restando che quel silenzio, secondo il profilo del Personaggio, appare difficilmente spiegabile, noi preferiamo consegnare alla valutazione del lettore anche questo aneddoto. Lo facciamo perché la Storia è fatta pure di attenzione a tutto quello che, a una prima analisi, può sembrare marginale; così è nostro dovere dire di altre fonti, secondo cui le cose si sarebbero svolte in modo ancor meno edificante. Secondo queste fonti, nei giorni successivi a quella piccola tragedia, un giullare improvvisò uno spettacolo in una piazza del Paese.
< Gentili donne, distinti signori > disse, < oggi il mio cuore è triste. Perché non sono qui per regalarvi un sorriso, come mi è consueto, e per un buffone non c’è cosa peggiore della consapevolezza di non poter fare ciò per cui si sente nato. Ma il mio cuore piange e sanguina persino più copiosamente per quel che vi devo raccontare. Questo Paese non è quello che credete, l’isola felice dove a tutti è data felicità e sicurezza grazie all’instancabile opera del nostro Principe. Un bambino di soli due mesi è morto di freddo, poche sere fa. Due mesi non sono una vita, sono un lampo di esistenza troppo breve. Si è addormentato nel suo giaciglio, e non ha visto il sole sorgere. E non l’ha visto non per qualche subdola malattia, scherzo crudele della natura che pure dobbiamo accettare, ma perché la sua giovane famiglia non l’ha potuto difendere dal freddo, accampata com’era lungo la riva del fiume. Alcuni si chiederanno cos’abbia detto o fatto il Principe, fra qualche giorno magari vi racconteranno il suo dolore. Ma la verità è un’altra >.
Un brusio inquieto e incredulo accompagnò quelle parole. Il giullare lo zittì con un cenno della mano.
< Sì, miei concittadini. Avete capito bene. Ma forse la tragedia più grande è proprio il vostro stupore. Mentre voi non l’immaginate neppure, esiste una realtà fatta di decine, forse centinaia di famiglie che vivono lungo il fiume, lontano dai nostri occhi e dai nostri tardivi rimorsi di coscienza. Occupano tende che noi non useremmo neppure per una villeggiatura. E questo avviene NON “nonostante” il volere del Principe, ma “grazie” al suo – e in fondo al nostro – volere. La verità è che quella famiglia, insieme a molte altre, era stata costretta ad abbandonare il proprio accampamento, di fortuna ma pur sempre relativamente sicuro e confortevole, cercandosi un’altra sistemazione per rispettare un ordine di Palazzo. Il Principe temeva che la festa (che tanta fatica gli era costata e che poteva costituire benemerenza presso l’Imperatore) potesse essere turbata alla vista di quei poveracci. Le cui condizioni d’indigenza, peraltro, in passato li hanno portati a distinguersi in attività non proprio nobili, che minano – citando il Gran Ciambellano – “la nostra percezione di sicurezza” >.

Gli scarni documenti a nostra disposizione su quei giorni ci impediscono, da qui in poi, di proseguire il racconto del giullare, e ci proiettano ancora nel campo delle possibilità. Secondo alcuni commentatori, evidentemente sfavorevoli al Principe e che non non accreditiamo né smentiamo, ma riportiamo col rigore proprio del nostro compito, quelle parole arrivarono alle orecchie del Gran Ciambellano. Per un attimo un’ombra velò i suoi occhi azzurri; non per la sorte del neonato, ma perché sapeva che quelle parole – più ancora della consapevolezza della tragedia – avrebbero rattristato il Principe. Alcuni detrattori più radicali sostengono che l’alto ministro temesse ripercussioni presso l’Imperatore, forse addirittura che si mettesse in dubbio la successione. Non si sa se per un’iniziativa diretta del Gran Ciambellano, o se dopo consultazione col Principe, il buffone fu arrestato e da qui se ne perdono le tracce.
Si dice che pochi giorni dopo il Principe in persona si sia recato dalla madre della piccola vittima, portando con sé un sacchetto di monete d’oro e, cosa più importante, la sua regale solidarietà. Secondo queste voci l’incontro fu (riportiamo testualmente la fonte) “intenso e commovente. Il Principe è apparso segnato dall’emozione e, sciogliendo l’abbraccio con la sventurata madre, aveva gli occhi velati di lacrime”. Si aggiunge, per dovere di cronaca, che secondo lo stesso documento all’incontro era presente il Gran Ciambellano, il quale non palesò uguale turbamento; ma l’autore della testimonianza si distingue per una buona dose di acrimonia verso il Gran Ciambellano, ricordandolo in altra parte dello scritto come “un uomo distante dai sentimenti umani, noto ai più per il suo sguardo gelido da rettile”.
Le cronache non raccontano nulla circa eventuali reazioni popolari al racconto del giullare e alla sua incarcerazione, e neppure sappiamo se il Principe ritenne di emanare un editto per assicurare condizioni di vita più dignitose alle altre famiglie costrette a vivere all’addiaccio. Formulare supposizioni esulerebbe dal compito dello storico, che deve solo raccontare i fatti, e a tale compito ci siamo attenuti. Sappia però il lettore che la nostra conoscenza di quel periodo ci fa supporre che il solo frutto concreto della vicenda fu ciò che poté avere quella giovane madre: un sacchetto di monete, un abbraccio, una lacrima negli occhi del Principe. E lo sguardo gelido da rettile del Gran Ciambellano, che vedeva in lei solo un problema risolto.

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Sabato 20 ottobre 2007 un piccolo rom di due mesi è morto di freddo a Roma. Le prime avvisaglie di un inverno in anticipo l’hanno raggiunto nella tenda dove era accampato con la sua famiglia, in seguito allo sgombero disposto poche settimane prima dal sindaco di Roma.
Come lo storico del racconto, anch’io non so se lo sgombero fosse dovuto alla volontà di “pulire” Roma in vista della festa del cinema, confinando alla periferia le presenze “esteticamente incompatibili”, o se gli sgomberi fossero frutto dell’ormai perenne “campagna sicurezza”; e, come lui, anch’io consegno al lettore queste ipotesi assieme ad ogni altra possibile, e neppure m’interessa sapere se il freddo sia stata causa o concausa della morte del piccolo.
In questo contesto, l’identificazione del personaggio del Principe, del bimbo morto e della festa di Palazzo, lascia poco spazio alla fantasia del lettore. Maggiore discrezionalità esiste nell’identificare il Gran Ciambellano o l’Imperatore, ma poco importa.
Il coraggioso giullare, purtroppo, non trova riscontro in alcun personaggio reale: la morte del piccolo cittadino rumeno (perché è così che lo voglio chiamare, ritenendo superflua ogni parola in più) non ha provocato analoghi slanci di coscienza. E forse la figura dell’irriverente buffone è quella di cui maggiormente si sente la mancanza nella realtà.