giovedì 22 marzo 2007

Anni di piombo: né la condanna al silenzio né l’amnistia sono la soluzione

Se un regista avesse voluto tessere una trama per tornare a parlare dei cosiddetti anni di piombo, cercando al tempo stesso di far credere ancora attuali emergenze ormai chiuse, non avrebbe potuto inventare una successione di eventi così favorevole. Il caso Ronconi, Curcio, le proteste delle vittime degli ex BR, l’anniversario del rapimento Moro e dell’uccisione di Marco Biagi, infine l’arresto di Cesare Battisti.
Le vittime del terrorismo chiedono più discrezione e silenzio ai protagonisti della lotta armata. Li capisco, e non considero le loro richieste semplice “vendettismo”. Ritengo però si debba avere prudenza verso quei politici che ne appoggiano le istanze: se i parenti delle vittime sono umanamente comprensibili, e se il loro ragionamento andrebbe valorizzato e approfondito, l’atteggiamento di chi ne sostiene gli appelli sembra prescindere dal valore morale di quelle richieste, assumendo le sembianze di sterile demagogia. A questo proposito, mi permetto di far suonare un campanello d’allarme proprio alle vittime del terrorismo: temo che chi li appoggia sia interessato più a stendere un velo di silenzio su quegli anni, piuttosto che a concedere alle vittime una sorta di risarcimento morale sotto la forma discutibile (e non so quanto efficace) di una condanna al silenzio verso gli ex terroristi. Ho inoltre la sensazione che quella condanna, qualora realizzata, rischierebbe d’essere estesa tanto ai carnefici quanto alle vittime, perché la violenza politica degli anni ’70 e ’80 è una memoria scomoda per quanto emerso ma pure (soprattutto?) per lo strato tuttora sommerso.
Non so se i parenti delle vittime si rendano conto che il silenzio invocato per i loro carnefici rischia di trasformarsi in un boomerang per la loro stessa, legittima e sacrosanta, sete di verità e giustizia: spero non si accontentino del ruolo di immaginette da tirare fuori negli anniversari per essere poi riposte nei cassetti impolverati della memoria scomoda. Sintomatico, da questo punto di vista, è che il dibattito su quegli anni ormai si limita a circoscrivere il fenomeno della violenza politica alle sole formazioni di estrema sinistra, mentre le “stragi nere” sono impunite e dimenticate. Sintomatico è pure che l’ultima sentenza su Piazza Fontana la si ricordi per le assoluzioni personali, piuttosto che per l’avvenuta individuazione delle responsabilità a carico di Ordine Nuovo, che appaiono inequivocabilmente dalla sentenza stessa.
In questo panorama, per i reati di quel periodo si inserisce la proposta di un’amnistia, con cui confesso di non concordare. Questo non per il merito, ma per il modo con cui viene ciclicamente tirata fuori dal cassetto: mi sembra si voglia rispondere a degli slogan semplicistici con la stessa arma, e questo può portare solo a ingessare il dibattito su posizioni contrapposte, facendo morire la discussione sul nascere. Da un lato c’è la tendenza forcaiola di chi sostiene che “i terroristi devono scontare fino all’ultimo giorno di galera”, negando pure, più o meno velatamente, qualsiasi ipotesi di riabilitazione per chi la pena l’ha scontata. Dall’altro lato c’è una sinistra che appare timorosa nel denunciare l’interessato strabismo di chi ancora oggi parla della violenza politica come fosse stata figlia di una sola matrice. Una parte propone il carcere, unito all’ergastolo bianco del silenzio per gli ex terroristi, come rabbioso rimedio; l’altra parte, in presenza di un’ormai avvenuta cancellazione dell’eversione neofascista dalla memoria collettiva, sembra accontentarsi di pareggiare il conto con una cancellazione di segno contrario. Nell’uno e nell’altro caso, il risultato è solo una finta chiusura di quegli anni, sotto la forma di un silenzio privo di verità storica e di giustizia.
Io credo che oggi, rispetto alla violenza politica degli anni che vanno da Piazza Fontana in poi, ci troviamo di fronte a una verità parziale e azzoppata, e in questo contesto nessuna amnistia è possibile, perché finirebbe col diventare (al di là della volontà dei proponenti) una rimozione. E le rimozioni mi inquietano: quasi mai sono innocenti, certamente mai risultano utili, se non per fini che di storico hanno ben poco.
Ben più utile di un’amnistia sarebbe una discussione, senza ambiguità e reticenze, su quegli anni. Una discussione che potrebbe davvero costruire, ma solo successivamente alla sua maturazione, le basi di un provvedimento di clemenza mirato che potrebbe trovare anche nelle vittime del terrorismo maggiore disponibilità all’ascolto. Solo a quel punto si potrebbe parlare di chiusure, anche dal punto di vista penale, degli anni di piombo e pure i parenti delle vittime potrebbero dire di aver ottenuto quella giustizia che è dovuta a loro e all’intero Paese. Non certo con l’imposizione del silenzio, non con ansie forcaiole, e neppure con amnistie che prescindano dall’individuazione di una verità storica che, col passare degli anni, appare sempre più un miraggio, soprattutto per le stragi che hanno insanguinato il Paese.

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